Molte poetesse della prima età moderna hanno in comune un inconveniente e una fortuna: la letteratura su cui si formano è quasi tutta al maschile e, per costruire una poetica originale, occorre che esse esplorino e rimescolino i materiali della tradizione a caccia di identità plausibili. La sfida alle convenzioni è al tempo stesso sociale e letteraria, e una donna come Elizabeth Jane Weston, vissuta tra Cinque e Seicento, la abbraccia a modo suo: nei componimenti latini pubblicati col titolo di Parthenica, «Canti verginali», Weston esce dalla letteratura classica per inondare la pagina di un nuovo flusso di vita.
Basta sfogliare i tre libri che compongono la raccolta per comprendere come l’intero corpus westoniano sia impastato di biografia e tenda perciò al disordine, alla densità, all’accumulo, fino a inglobare lettere e poesie composte da altri autori. Questo biografismo debordante finirebbe per respingere il lettore, se non vi fosse impresso il marchio dell’eccezionalità: rimasta orfana di padre in tenerissima età, Elizabeth vive una vita transnazionale, trasferendosi dall’Inghilterra a Praga dopo essere stata adottata da Edward Kelley, uno dei più bizzarri alchimisti e occultisti del sedicesimo secolo, che la avvia allo studio delle lingue antiche e moderne.
Quando si menzionano alchimisti come Kelley, è facile che la mente corra ai laboratori polverosi, ai vasi di vetro, ai forni infuocati cui l’iconografia e la narrativa alchemiche ci hanno da tempo abituati: nel romanzo L’angelo della finestra d’Occidente, Gustav Meyrink descrive il padre adottivo di Elizabeth come un «ciarlatano dalle orecchie recise» che opera all’ombra del più grande alchimista elisabettiano John Dee; a passare inosservata, in queste narrazioni, è l’altra faccia della medaglia, cioè lo squallore e la povertà di questo sogno da «ciarlatani».
Praticare l’alchimia nel Cinquecento significa, in effetti, rischiare il fallimento, il discredito sociale, la rovina economica. Molti «soffiatori di vetro» vanno incontro a questa sorte, trascinando con sé le proprie famiglie, e la parabola biografica di Kelley ed Elizabeth non fa eccezione. Imprigionato dall’imperatore Rodolfo II, che non credeva più alle sue promesse da marinaio, Kelley muore – forse suicida, forse in un rocambolesco tentativo di evasione dalla torre di Hněvín – nel 1597. Tre anni dopo scompare anche John Francis, il fratello di Elizabeth, cui è dedicato l’epitaffio che traduco più sotto.
Da questo momento in poi la poesia della giovane autrice fiorisce all’ombra di una Musa funebre, prolungandosi come un tetro, ininterrotto lamento. I grandi temi dei Parthenica sono la vita aerumnosa, il dolore, l’orfanità, il bisogno, i lutti di una donna che, destituita di ogni mezzo, affida alla poesia una speranza di riscatto sociale. Non è un caso che l’archetipo fondativo dell’immaginario westoniano sia il sole – o meglio Febo – velato da una coltre di nubi: si direbbe che esso simboleggi l’autocoscienza letteraria, la luce delle humanae litterae, su cui si proiettano le ombre della miseria. Un archetipo non originale, anzi consumato da secoli di letteratura, ma proprio per questo rappresentativo di una poetica che vorrebbe testimoniare un grande dolore senza vantare raffinate risorse formali.
L’autoritratto che Weston si fabbrica, a partire dai Tristia di Ovidio, è quello di una «virgo pudica» che attinge a un «aridulus fons», una sorgente disseccata, dando sfogo nei propri versi a una continua «venula» di lacrime. Quanto a ciò che scrive, neppure lei lo ritiene gran cosa: ha paura di essere lodata troppo e ci tiene a rassicurare i critici più zelanti che ha piena coscienza dei propri limiti di donna che scrive; il paragone con le antiche poetesse le sembra davvero fuori luogo: «Non si dirà di me che con le mie poesie io possa / superare Prassilla, Saffo, o Corinna dotta» («Non ego Praxillam, Sappho, doctamque Corinnam / Carminibus dicar vincere posse meis»).
Pur non sentendosi all’altezza, Weston si tiene stretta la penna, almeno fino a quando non prende marito nel 1603. In una poesia a Zoilo, pseudonimo di un accanito detrattore, riconosce di comporre testi difettosi, ma non rinuncia a difendere la semplicità del proprio dettato, che nasce dal dolore: il trucco, il «fucus», è un lusso che una ragazza come lei non può permettersi. Non manca, in verità, una certa goffaggine nell’apparato metaforico di quest’autodifesa, come quando Weston si scusa se al «naso» di Zoilo i suoi canti suoneranno «rauchi»; ma anche inciampando sulla forma, e al di là della programmatica modestia, il suo orgoglio di puella docta viene comunque a galla.
Per comprendere la personalità di Weston nei suoi rapporti con l’epoca, sarebbe interessante snidare gli stereotipi di genere che un simile testo sottende nell’associare Zoilo a un cane rabbioso e a una spada affilata, o nel fornire una rappresentazione dell’autrice come di giovinetta sfiorita e sofferente; a tratti, il testo stesso sembra personificato: è una donna che si scusa di non essere abbastanza «speciosa», di non avere il trucco e gli ornamenti adeguati (a quest’interpretazione si ispira la mia resa italiana).
Ma è forse nelle poesie morali e sacre che Weston dà il meglio di sé: dove la fede cristiana diventa rifugio e occasione di canto, la poetessa ordisce similitudini e antitesi barocche alternando un’accorata fluvialità a una brevitas epigrammatica. Emerge sbiadita, contraffatta, la lezione di Edward Kelley: senza menzionare pietre filosofali, forni o storte, un componimento come Omne nimium Naturae inimicum («Ogni eccesso è nemico alla Natura») è un vero testo alchemico con la sua speculazione sull’ars che emula la natura. E certo il ricordo di Kelley, medium e interprete di angeli, si cela dietro la cursoria menzione dell’angelo nella lunga preghiera dedicata al nome di Gesù, dove la giovane poetessa – in maniera piuttosto plateale – prende le distanze dalla soteriologia angelica del «ciarlatano dalle orecchie recise».
Le poesie che ho tradotto seguono in alcuni casi le scelte metriche delle restanti traduzioni di Neolatina, che ho illustrato altrove; in altri casi il tema, la dimensione del testo e/o la minore adesione agli schemi classici mi hanno suggerito una versione endecasillabica, con cui ho voluto avvicinare Weston alla poesia in volgare del suo tempo.
Dai Parthenica
In obitu eiusdem epitaphium, sororii amoris ac extremi officii ergo conscriptum 4 Novemb. anno 1600. Ad lectorem.
Forte quis hac recubet, lector, disquiris in urna?
Heu tenero iuvenem flore recondit humus.
Nomina participat Franciscus, nomina Janus;
Cognomen vere nobile Westonius.
Miserat hunc olim longinquis Anglia, Boiis,
Ex puero ut fieret cultor, Apollo, tuus.
Ille quidem Musas, sed bis duo lustra, colebat;
Assidua versans sedulitate Sophos.
Verum ubi florigeris, et vix, haec attigit annis,
Clauserunt teneros tristia fata oculos!
Plangite vos mecum Veneres; vos Triga sororum;
Flete novem Musae; vester alumnus obit.
Unicus hic Matri natus; patris unica cura;
Hoc uno fissa est unica fratre soror.
Orphana nempe soror; mater gemibunda relicta est;
Abrupit Triadem, quae fuit arcta Monas.
Haec quia fata volunt, geminos quae lingua dolores,
Quae poterit lacrimas explicuisse meas?
Munera sed Frater tibi sume novissima amoris;
Quae reddit bustis tristis Elissa soror.
Sicque vale aeternum, caelo Germane receptus;
Dum socia caeli per iuga Matre sequar.
Epitaffio in morte del medesimo [fratello], scritto il 4 novembre dell’anno 1600 come pegno d’amore ed estremo ufficio sororale. Al lettore.
Ti stai chiedendo chi riposi in quest’urna, o lettore?
Nel suo tenero fiore, ahimè, copre la terra
un giovinetto: reca i nomi di Francesco e Giano;
Westonius, invece, è il nobile cognome.
Lo mandò un giorno l’Inghilterra tra i Boemi lontani,
perché fosse tuo adepto sin da bambino, o Apollo.
Erano ormai vent’anni che venerava le Muse,
sfogliando con assidua diligenza i Sapienti.
Quando a stento sfiorava gli anni della primavera,
gli sigillò una losca morte lo sguardo tenero.
Piangetelo con me, Veneri, e voi, trio di sorelle;
piangete, o nove Muse; muore un vostro pupillo.
Figlio unico a sua madre, di suo padre unico amore,
unico alla sorella, che ora è sola, fratello.
Orfana è la sorella, abbandonata tra i lamenti
la madre; era unitaria la triade, e l’ha spezzata.
E, se così vuole il destino, il duplice dolore
e le lacrime quale lingua potrà spiegare?
Ma prendi questi ultimi doni che sulla tua tomba,
fratello, la tua triste sorella Elissa rende;
fratello accolto in cielo, per l’eternità sii lieto,
finché io non scali i monti del cielo con la madre.
Omne nimium Naturae inimicum.
Ut natura suo est pulchre contenta paratu,
Sic ars immensas undique quaerit opes:
Utque artis labor omnis honorque decorque caducus,
Naturae constans sic manet omne bonum.
Ergo odit nimium, medium Natura tuetur:
Felix, natura qui duce carpit iter!
Ogni eccesso è nemico alla Natura.
Quanto natura è paga della sua magnificenza,
tanto l’arte reclama dovunque ampie ricchezze.
Dell’arte la fatica, il pregio, il bello deperiscono,
ma i beni di Natura perdurano incrollabili.
Natura, dunque, odia l’eccesso, serba il giusto mezzo:
felice chi, guidato da lei, prende il cammino.
De nomine Iesu.
Verte stylum, mea Musa; procul mundana recedant:
Cedant a calamis nunc leviora tuis.
Iam neque pro laetis modulis gratabere Amicis;
Nec dictura frequens versibus ibis, Ave.
Carmine lugubri non fata sinistra dolebis:
Ad Proceres nec iam ducet arundo preces.
Non supplex mea vota feres ad Caesaris aulam;
Nec mihi difficilem sollicitabis opem:
Legibus haud metricis sapientum dicta virorum
Involves: nusquam buccina laudis eris:
Non hilari accipies nascentum festa sonore:
Nec lacrimas dabimus, quas ciet aeger amor;
Sed veteri graviora modo meditabimur: aether
Materiam auspiciis praebuit ecce novis!
Namque dies micuit, quo guttula prima cruoris,
Pro nobis nostra proque salute cadit.
Quis fundat, quaeris? teneris ex artibus infans,
Infans matre miser Virgine, patre Deus.
Cesso heic, tanta meam superant mysteria mentem:
Mater homo est, nullo sed temerata viro.
Hic ubi vix, quam sors humana humanitus offert,
Octo dies alma luce potitus erat,
Se circumcidi patitur, pro more vetusto,
Et Iesum aligeri, Patre volente, vocant.
Dic igitur Iesu carmen de nomine Musa:
Quid distet reliquis illud, et unde gerat.
Sunt quibus hoc nomen fuit olim; Josua, Mosis
Successor, simili nomine dictus erat.
Tuque Sacerdotem tali de nomine magnum
Zacharia, scriptis ante fuisse doces.
Non tamen aeternam populo hi struxere salutem;
Sed peritura fuit, si fuit illa salus.
Josua deduxit Cananaea per arva fideles.
Exigua illa salus, si meditaris, erat.
Post hos, Syracides dictus cognomine Iesus,
Contulit e multis ethica multa libris.
Sint haec magna quidem et magni pendenda: sed illa
Non Christi summis aequiparanda bonis.
Virginis ac Divum soboles, cui sidera rorant,
Sola mihi Iesu, sola Redemptor erit.
Non hominum ratio, sed Patris diva voluntas
Nomen id ante dedit, quam vagus orbis erat.
Angelus hoc nobis sacrata voce revelat,
Et certa dici de ratione monet.
Una salus miseris datur hoc; ut crimine liber
Vivat homo, et verae gaudia lucis agat.
Nam licet a cuncto sanentur corpora morbo;
Non tamen est nobis vera putanda salus.
Pectora peccato quod si releventur ab omni,
Ista salus demum crede perennis erit.
Nam quicumque fuit maledicto a crimine liber,
Nil huic vel morbus, pauperiesve nocet.
Hunc neque tot gradibus mors impetuosa movebit:
Solo etenim Iesu nomine salvus agit.
Qui non salvus erit solius nomine Iesu,
Nil hunc fluxa salus divitiaeque beant.
Nulla profanorum moveat me cura bonorum,
Caelestis deceat sed diadema domus.
Sic ego salvabor; sic mens et vita valebunt:
Sic mors, sic furiae nil nocuisse queunt.
Adde et Calliope, quibus hic sit missus in orbem:
Mortifero quosnam liberet ille iugo.
Non aliena quidem Messias agmina curat:
Sed sibi devote membra caduca fovet.
Grex alienus is est, qui nescit credere dictis;
Quique redemptorem nescit amare suum.
Sed vera quicumque fide complectitur ipsum,
Ille Dei populus cur reputetur, habet.
Crede modo Christi verbis, sacra iussa capesse:
Si ratio pugnat, sufficit; autos epha.
Qua ratione suos divina propago tuetur?
Fallor? an ex merito, crimine liber agis?
Non ita; sed Christi merito Patris ira recessit:
Salvifica Christi morte repensus homo est.
Hoc verae fidei qui nixus robore perstat,
Vivet, et in media morte beatus erit.
Namque bonis nomen Iesu bona plurima confert:
De caelesti homines nempe salute docet.
Non aliud nomen sub Caelo restat in orbe,
In quo nos salvos iusserit esse Deus.
Nominibus reliquis merito praeponitur unum,
Quo semel audito flectitur omne genu.
Angelus e caelo veram conferre salutem
Nescit; at a Iesu vera petenda salus.
Quisquis in hoc dulci, spe firma, nomine credit,
Salvus hic, inferno liber ab hoste, manet.
Nil externa tamen genuum subiectio prodest:
Ni mens se flectat, flexio nulla iuvat.
Ergo Salvator Iesu suavissime salve;
Mente tibi pura carmina fusa cape.
Sis clemens famulae; peccata remitte; guberna
Affectus, Sensus, ora manusque tibi.
Ut tibi semper agam, Iesu, pro munere grates,
Inque meo officio iussa fidelis agam.
Sis mihi Salvator vere, dulcissime Iesu:
Fac, quod in orbe cano, sic super axe canam.
Sul nome di Gesù.
Mia Musa, cambia stile: sia ogni vanità sbandita,
lungi dalla tua penna siano ora i canti lievi.
Non loderai più per i ritmi amabili gli amici,
né più, densa di versi, dirai per me: Salute!
Non piangerai morti luttuose col tuo canto funebre;
non recherà preghiere ai nobili il tuo flauto;
non porterai i miei voti, supplice, alla corte reale,
né chiederai l’aiuto che raro mi si accorda;
non metterai più in versi la lezione dei sapienti,
né sarai in alcun luogo una tromba di gloria;
né accoglierai con canto allegro una festa di nascita;
non di un amore infausto piangerò più le lacrime;
ma canterò argomenti più profondi del consueto:
ecco, con nuovi auspici è l’etere a ispirarmi!
Infatti è balenato il giorno in cui la prima stilla
di sangue cade, nostro bene, salvezza nostra.
Chiedi chi sia a versarla? Scorre dalle membra tenere
d’un bimbo triste, il figlio di Dio e di una vergine.
Basta: vincono l’intelletto arcani così grandi:
la madre è umana, eppure intatta da ogni uomo.
Da otto giorni godeva egli del lume della vita
che l’umano destino dispensa umanamente
quando subì, secondo il rito, la circoncisione:
lo chiamano gli alati «Gesù»: lo vuole il Padre.
Perciò sul nome di Gesù canta il tuo canto, Musa,
quanto disti dagli altri e donde Gli derivi.
Vi fu chi un tempo ebbe quel nome: Giosuè, successore
di Mosè, fu chiamato con un nome consimile;
tu, Zaccaria, racconti nel tuo libro che in passato
vi fu un gran Sacerdote che portò tale nome.
Costoro non recarono salvezza eterna al popolo,
ma temporanea, sempre se quella fu salvezza.
Lungo i campi di Canaan Giosuè guidò i fedeli:
fu quella, se ci pensi, una salvezza esigua.
Dopo di loro, con il nome di Giosuè, Siracide
trasse da molti libri molti detti morali.
E siano, queste, grandi imprese e da stimare: ai sommi
beni di Cristo, certo, non sono da eguagliare.
Uno è per me Gesù, il germoglio di Dio e della Vergine,
bagnato dalle stelle; uno il mio Redentore.
Non la ragione umana, ma la volontà divina
del padre scelse il nome, quando non c’era il mondo.
Ce lo rivela un angelo con voce consacrata;
ci ammonisce che il nome poggia su basi solide;
è l’unica salvezza per i tristi, perché l’uomo
viva privo di colpa, gioisca al vero lume.
Infatti, anche se i corpi da ogni malattia si sanano,
quella non è da credere una salvezza autentica;
ché, se da ogni peccato i cuori sono alleggeriti,
credilo, è questa, infine, la salvezza perenne.
Chiunque sia sgravato dal peccato maledetto
non gli farà più male né morbo né miseria;
dando l’assalto, non lo smuoverà da così eccelsi gradi
la morte. Egli nel solo nome di Gesù è salvo.
Ma chi nel nome del solo Gesù non sarà salvo,
né fragile salvezza né ricchezza l’allegra.
Me dei beni profani non sospinga alcun pensiero,
mi stia bene il diadema della casa celeste.
Così io sarò salva, mente e vita risanate;
così morte e flagelli non possono ferirmi.
Aggiungi anche, Calliope, per chi sia venuto al mondo,
e chi venga a salvare dal giogo micidiale.
Il Messia, infatti, non si cura delle schiere estranee;
a sé devotamente cura le membra fragili.
Estraneo è chiunque non sa credere nella parola
e chiunque non sa amare il proprio redentore.
Ma, chi con fede autentica lo abbraccia, quelli sono
da credere a ragione il popolo di Dio.
Credi ai detti di Cristo, adempi i tuoi sacri doveri;
se la ragione è ostile, questo basta: autos epha.
Com’è che la prole divina veglia i suoi protetti?
è per merito – o sbaglio? – che sei privo di colpa?
No, è merito di Cristo se l’ira del Padre cessa:
nella morte di Cristo l’uomo ha premio e salvezza.
E chi permane nella forza della vera fede,
questi vivrà, e anche nella morte sarà felice.
Ai buoni, infatti, il nome di Gesù dà molti beni:
rivela invero agli uomini la salvezza celeste.
Non c’è altro nome, sotto il Cielo, sulla terra, in cui
Dio abbia comandato per noi l’essere salvi.
A tutti gli altri nomi questo solo si prepone
a buon diritto: a udirlo si piega ogni ginocchio.
Un angelo dal cielo non può dare la salvezza
autentica; la vera salvezza è da Gesù.
Chi crede in questo dolce nome con ferma speranza,
resta salvo e al sicuro dal nemico infernale.
Non serve però inginocchiarsi solo esternamente;
piegarsi a nulla giova, se non pieghi la mente.
Gesù, salve a Te, dunque, dolcissimo Salvatore;
prendi i canti che io verso per te con mente pura.
Indulgi alla Tua serva, scontale i peccati, guida
verso di Te passioni, pensieri, bocca, mani.
Perché io, Gesù, ti renda sempre grazie del tuo dono
e adempia i tuoi comandi, fedele nel mio ufficio.
Dolcissimo Gesù, siimi davvero il Salvatore
e ciò che io canto in terra fa’ che lo canti in cielo.
Dissolvi cupio.
Quid mea mendosae laceratis pectora curae?
Praevaleat stimulis nil caro blanda suis.
Nil sapiat, stupidi quod amat dementia vulgi,
Et falso summum quod putat esse bonum.
Dissolvi cupio vitae melioris amore:
Nam bene velle sat est, et potuisse mori.
Voglio scomparire.
Perché mi fate il cuore a brani, angosce
colme d’errore? Mai la dolce carne
possa con i suoi pungoli domarmi
e sia per me insapore ciò che il popolo
folle ama, e scambia per il sommo bene.
Io voglio per amore di una vita
migliore scomparire. Basta un giusto
volere. Basta di saper morire.
Quis dabit capiti meo aquam?
Triste quis irroret caput? aut quis noxia fonte
Lumina, sed numquam deficiente, riget?
Me vitia ut noctes mea flere diesque viderent,
Quo valeam iratum conciliare Deum?
Hoc mihi nulla dabit vis morti subdita; mortem
Pro me qui iugulas, hoc mihi, Christe, dabis.
Chi darà acqua al mio capo?
Chi aspergerebbe un capo maledetto?
Chi sui miei occhi dannati getterebbe
acqua di fonte che non secchi mai?
Mi vedessero pure notte e giorno
piangere i miei peccati, il Dio adirato
con quale arte potrei rifarmi amico?
Nessuna forza mai, fra quante ha morte
in sua balia, mi donerà la grazia,
ma tu soltanto, che alla morte togli
la vita, Cristo, per la mia salvezza.
Sustine.
Sis vitae et sortis patiens praesentis ut illam
Possideas, quae te fine soluta beet.
Abstine.
Sis noxae et turbae fugiens scelerantis; Alastor
Ne te tartariis exagitet colubris.
Resisti.
Alla vita presente, alla ventura
resisti, perché tua sia l’altra, quella
di cui godrai alla fine.
Rinuncia.
Fuggi la colpa, fuggi il volgo perfido;
perché con i serpenti dell’inferno
non ti tormenti Alastor.
In Zoilum.
Zoile, quid laceras rabido mea carmina dente?
Quid miseram quovis acrius ense feris?
Nempe parum esse putas mea dicta Poetica? quod sint
Compta minus fuco, quod speciosa minus
Danda mihi venia est, si carmina rauca puellae
Sint minus ad nasum grata futura tuum.
Bis mihi lustra duo currunt: aetatis in ipso
Flore, dolor, curae me, lacrimaeque premunt.
Utque mihi simplex vita est; ita simplice cultu
Gaudeo: nil fuci, livor inique vides.
Quod latii desit sermonis gratia, noli
Propterea gemitus spernere turpe meos.
Scripsimus haec curas inter lacrimasque, fatetur
Id gemitu mecum turba novena suo.
Tempus erit forsan, quo dexteriora sequentur,
Has nunc primitias consule, quaeso, boni.
A Zoilo.
Perché rabbioso, a morsi, Zoilo, laceri i miei canti
e peggio d’una spada ferisci un’infelice?
Per te dunque non valgono nulla i miei versi? Che abbiano
il trucco inadeguato, l’aspetto meno splendido,
bisogna che mi si perdoni, se al tuo naso giungono
meno graditi i canti rauchi di una ragazza.
Corrono i miei vent’anni: sul fiorire della vita
il dolore, i pensieri, le lacrime mi opprimono.
Semplice è la mia vita; così godo che sia semplice
l’abito. O ingiusta invidia, in me non v’è alcun trucco!
Non rigettare ignobilmente i miei lamenti, solo
perché gli fa difetto la grazia del latino.
Che io abbia composto fra pensieri e lacrime, lo prova
insieme a me gemendo il coro delle Nove.
Verrà forse un’età per canti meglio elaborati:
ti prego, ora contentati di queste mie primizie.
N.d.T. Nella restituzione del testo originale, che ho attinto da qui, ho riportato in minuscola alcune parole che nell’edizione a stampa a cura di Georg Martin von Baldhoven figurano in maiuscola (così, ad esempio, «Iesus» e «Deus»). Per un’edizione filologica con traduzione inglese si rimanda al lavoro di Donald Cheney e Brenda M. Hosington.