poesie cornelius eady

Ottuso nella sua pelle inventata: 5 poesie di Cornelius Eady

Le poesie di Cornelius Eady qui presentate appartengono alla terza sequenza della raccolta Brutal Imagination, (Putnam Pub Group, 2001), costruita sulla figura dell’immaginario criminale afroamericano “inventato” da Susan Smith, che nel 1994 in South Carolina si era sbarazzata dei due figli facendoli scivolare in un lago con la sua Mazda, e aveva incolpato della loro morte per affogamento un presunto carjacker di colore.

In questa sequenza, proprio come se fosse in atto un processo giudiziario in poesia, Eady chiama a testimoniare alcune figure di neri creati a vario titolo dall’immaginario bianco:

  • Uncle Tom, noto personaggio partorito dalla fantasia della scrittrice Harriet Beecher Stowe;
  • Uncle Sam e Aunt Jemima, personaggi delle pubblicità di prodotti alimentari (N.B.: dopo l’omicidio di George Floyd, nell’ambito del conseguente campagna di sensibilizzazione ispirata dal movimento BLM, l’azienda produttrice dello sciroppo d’acero Aunt Jemima ha cambiato marchio, rimuovendo lo storico volto della donna afroamericana dalle confezioni di sciroppo);
  • Buckwheat, un ragazzino coprotagonista della serie di Our Gang (Simpatiche canaglie), un telefilm molto popolare negli anni tra le due guerre;
  • Stepin Fetchit, un attore di vaudeville che rappresenta un nero goffo e pigro.

Colpisce di queste poesie il tono abrasivo, blunt (brutale, appunto) del dettato poetico e le considerazioni sorprendenti, tangenziali, mai retoriche dei personaggi a cui il poeta dà voce. Qui di seguito, alcune parole dello stesso Cornelius Eady a proposito dell’evento che ha ispirato la raccolta:

It’s an examination of what the stereotypes are made of, the elements that we’ve used to make those characters what they are, our belief system. One thing that fascinated me about the story was how easy it was for Susan Smith to tap into that. She just pulled it out of the ether. I know when it happened. Between the time she sees the car’s taillights go under the lake and when she’s walking from the lake across the highway toward the first house she finds. In that little space of time, she’s thinking, Who did this? Someone’s got to have done this. Someone’s got to be blamed for this. It’s a black guy, and he’s wearing a cap, and he pushed me out of the car. She’s thinking this as she’s walking toward the house. It’s just so easy because it’s plausible. That was the scariest part, how easy it was for her.

Intervista a Cornelius Eady, a cura di Patricia Spears Jones (“Bomb Magazine”, 2002)

introduzione a cura di Andrea Sirotti


UNCLE TOM IN HEAVEN 

My name is mud; let’s get that out 
Of the way first. I am not a child. 
I was made to believe that God 
Kept notes, ran a tab on the blows, 
So many on one cheek, so many on 
The other.

I watch another black man pour from a 
White woman’s head. I fear 
He’ll live the way I did, a brute, 
A flimsy ghost of an idea. Both 
Of us groomed to go only so far.
 
That was my duty. I’m well aware 
Of what I’ve become; a name 
Children use to separate themselves 
On a playground. It doesn’t matter 
To know I’m someone else’s lie,
 
Anything human can slip, and that’s enough 
To make grown men worry about 
Their accent, where their ambition might 
Stray. It doesn’t help anything to tell you 
I was built to be a hammer, 
A war cry. Like him, nobody knew me,
 
But in my prime, I filled the streets, worried 
Into the eardrum, scared up thoughts 
Of laws and guns. How I would love 
Not to be dubious,
 
But I am a question whole races spend 
Their time trying to answer. My author 
Believed in God, and being denied the 
Power to hate her,
 
I watch another black man roam the land, 
Dull in his invented hide.
ZIO TOM IN PARADISO

Il mio nome è fango; mettiamolo subito
in chiaro. Non sono un bambino. 
Mi hanno fatto credere che Dio
prende appunti, che tiene il conto dei colpi: 
tanti su una guancia, altrettanti 
sull’altra.

Guardo un altro nero che sgorga dalla 
testa di una bianca. Mi sa proprio 
che vivrà come ho vissuto io, un bruto, 
il fragile fantasma di un’idea. Entrambi
destinati ad arrivare solo a un certo punto.

Era quello il mio dovere. So bene 
cosa sono diventato; un nome 
che i bimbi usano per dividersi in squadre 
ai giardinetti. Che importa 
sapere che sono la bugia di qualcun altro,

tutto ciò che è umano sfugge, ed è abbastanza 
a far preoccupare uomini adulti del
proprio accento, dove la loro ambizione potrebbe
sviare. È del tutto superfluo dirvi che
mi hanno fatto per essere un martello, 
un urlo belluino. Come lui, nessuno mi conosceva,

Ma da giovane riempivo le strade, preoccupato
fin dentro l’orecchio, da pensieri accumulati
su leggi e pistole. Come mi piacerebbe 
non destare sospetti,

ma sono una domanda a cui intere razze 
passano il tempo provando a rispondere. La mia autrice
credeva in Dio, e visto che mi si nega 
la possibilità di odiarla,

guardo un altro nero vagare per il paese, 
ottuso nella sua pelle inventata.

UNCLE BEN WATCHES THE LOCAL NEWS 

Like him, I live, but never agreed to it. 
A hand drew me out of some mad concern. 
I was pulled together 
To give, to cook 
But never eat.
 
So I know this fellow, this guy 
They’re overturning the world 
To find. He and I were 
Stamped from the same ink. 
I look at them look, high, low, 
Over, under. I know 
What that white lady thinks,
 
She’s as sad and crazy as the smile 
They’ve quilled under my nose.
ZIO BEN GUARDA LE NOTIZIE LOCALI 

Come lui, vivo, ma non ero d’accordo. 
Una mano mi disegnò per folle preoccupazione.
Fui messo insieme 
per dare, per cucinare
ma mai per mangiare.

Perciò lo conosco quel tipo, quel ragazzo 
che per trovarlo mettono il mondo 
sottosopra. Ci hanno stampato
con lo stesso inchiostro, io e lui. 
Guardo i loro sguardi, dall’alto, dal basso, 
sopra, sotto. So bene
ciò che pensa la signora bianca,

è triste e pazza come il sorriso
che mi hanno inciso sotto il naso.

JEMIMA’S DO-RAG 

I crown her secret, the hair 
The world seems to dread. 
At night, alone, after work has loosened 
Its grip, and the muscles of her smile 
Can relax, at the dresser, beside the 
Washbasin, down comes the beauty 
They try so hard to bind.
 
I hear there’s a man on the street, 
Eyes dead as marbles, dodging 
The law. They say his cap is made 
Of wool. If he sleeps, I bet he dreams
Like we do, scalp uncoiled, nobody’s helper, 
No one’s aunt.
IL FOULARD DI ZIA JEMIMA

Faccio da corona al suo segreto, i capelli 
ci cui il mondo sembra aver paura. 
Di notte, da sola, dopo che il lavoro ha mollato 
la presa, e i muscoli del suo sorriso 
possono rilassarsi, davanti al 
comò, accanto al catino, fluisce la bellezza 
che loro fanno di tutto per imbrigliare.

Mi hanno detto: c’è un uomo per strada, 
gli occhi morti come biglie, che scansa
la legge. Dicono che ha in testa un berretto 
di lana. Se dorme, scommetto che sogna
come facciamo noi, chioma libera, colf di nessuno, 
zia di nessuno.

BUCKWHEAT’S LAMENT 

My family tells me this white gang I run with will 
Grow up, and leave me behind. Our bones 
Will change, and so will their affection. I will 
Be a childlike man who lives in a shack. Just 
Wait, they promise, my hair will become 
Hoo-doo. The white girls will deny how we rassled, What we saw. They laugh
 
Wait ’til you’re grown. And I hear this sad place 
At the middle of that word where they live, 
Where they wait for my skin to go sour.
IL LAMENTO DI BUCKWHEAT 

Dicono i miei che quelle simpatiche canaglie bianche, cresceranno, e mi lasceranno indietro. Le nostre ossa cambieranno, e anche il loro affetto per me. Sarò 
un uomo infantile che vive in baracca. Aspetta
e vedrai, mi avvertono, i capelli saranno buoni 
per il vudù. Le ragazzine bianche negheranno le zuffe, negheranno ciò che abbiamo visto. Ridono

vedrai quando sarai grande. E sento questo posto triste
al centro della parola in cui vivono loro, 
in attesa che la mia pelle vada a male.

STEPIN FETCHIT READS THE PAPER 

Not the dead actor, 
Historically speaking, but the ghost 
Of the scripts, the bumbling fake 
Of an acrobat, the low-pitched anger 
Someone mistook for stupid.
 
This so-called bruiser rattling the streets, 
Heavy with children, I’d like to 
Tell him what a thankless job 
It is to go along to get along. 
All the nuances can and will 
Be rubbed smooth and by the time 
It’s over,
 
By the time you’re dead and the people 
You thought you were doing this 
On behalf of are long forgotten,
 
There’s only an image left that they 
Name you after, toothy, slow, 
Worthy of a quick kick in the pants. 
I used to have bones, I’d tell him. 
It was a story that 
Rubbed out my human walk.
STEPIN FETCHIT LEGGE IL GIORNALE 

Non l’attore morto, 
storicamente parlando, ma il fantasma 
delle sceneggiature, il goffo simulacro 
di un acrobata, la rabbia contenuta
che qualcuno ha preso per stupidità.

Quel cosiddetto brutto ceffo che terrorizza le strade, carico di bambini, vorrei 
dirgli che è un lavoro ingrato 
andare avanti per tirare avanti. 
Tutte le sfumature possono e saranno
appianate prima della fine
del tempo,

quando sarai morto e la gente
per conto di cui pensavi di fare questo
sarà da tempo dimenticata,

resterà solo un’immagine da
cui prenderai il nome: dentone, ritardato, 
degno di un rapido calcio nel culo. 
Una volta avevo le ossa, gli direi. 
È una storia che mi ha privato
del mio passo umano.

Traduzioni di Andrea Sirotti


Cornelius Eady (1954) è nato a Rochester, New York. Ha pubblicato vari libri di poesia, tra i quali ricordiamo: Victims of the Latest Dance Craze (Ommation Press, 1986), il candidato al premio Pulitzer The Gathering of My Name (Carnegie Mellon University Press, 1991), il finalista al National Book Award Brutal Imagination (G. P. Putnam’s Sons, 2001) e Hardheaded Weather (G. P. Putnam’s Sons, 2008). Nel 1996 ha fondato con Toi Derricotte la Cave Canem Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che offre uno spazio di impegno intellettuale e di dibattito critico a favore degli afroamericani. Collabora con vari musicisti jazz.

Andrea Sirotti (1960) è traduttore e anglista postcolonialista. Fa parte delle redazioni di «Semicerchio», rivista di poesia comparata e di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia. Dal 1999 traduce per l’editoria, soprattutto poesia e narrativa postcoloniale. Tra i poeti tradotti (o co-tradotti) figurano Jane Hirshfield, Margaret Atwood, Carol Ann Duffy, Eavan Boland e Arundhathi Subramaniam (premio Ceppo 2014). Ha anche tradotto, per Einaudi, Rizzoli e per altri editori, narratori come Chimamanda Ngozi Adichie, Hisham Matar, Alexis Wright, Hari Kunzru, e Lloyd Jones. Opera da anni come promotore di eventi letterari, collaborando all’organizzazione di festival di poesia internazionale.


In copertina: Lorna Simpson, Wigs (1994).