Siamo alle solite: prima persona, lingua ed esperienza. La poesia di Gabor Gyukics, come tanta altra dall’Europa dell’Est, è estranea alla problematizzazione della soggettività e al concetto di Opera che ci riguardano così da vicino. L’autore si muove nel campo dei fondamentali lirici con postura e gesto puliti, lavorando sull’articolazione formale minima: il profilo del verso e il dispiegamento sintattico. I topoi del linguaggio altro (afono), della sparizione (calcinculo) e del bozzetto come forma di devozione al luogo percepito, di vicinanza (natura morta americana) ci giungono come lacerti di una conversazione assolutamente colloquiale, un dialogismo letterario classico che però riduce ai minimi termini il meccanismo della simulazione. Ci vengono dette delle cose, e attraverso la disposizione spaziale minimalista (nessuna interpunzione, versi irregolari e fedeli a una prosodia enunciativa riconoscibile) noi siamo portati di fronte a una situazione, una flagranza. Da questa situazionalità deriva poi linearmente la massima o, come nell’ultimo testo, il compimento di un sistema di percezioni interrelate organizzate in immagine. La dimensione internista della lirica è affidata alla sola dispositio dei materiali referenziali, non viene mai estrapolata e resa autonoma. Questa concentrazione degli strumenti e della loro capacità di implicare senso non arriva però mai all’abrupto, al gesto iroso o rude: ci sono solo la consequenzialità discorsiva e una specifica persona che compare dietro alle strutture ritmico-melodiche.
Siamo su un terreno rischioso che Gyukics riesce a calcare senza distrazioni, innalzamenti, abbassamenti o ironie, ovvero armandosi della lingua giusta. In questa poesia c’è qualcosa di maturo e di non replicabile in italiano. Anzi: questi testi, quando si tenta di tradurli, fanno apparire la nostra lingua come troppo complessa e connotata dalla sua storia, nonché appesantita da una selezione ampia e spietata di mezzi. È anche perché credo che valga la pena attraversare questa esperienza di straniamento rispetto alla propria lingua che ho deciso di prendere in considerazione la poesia da cui proviene: vi invito a fare lo stesso.
Dimitri Milleri
Scrivere una nota di traduzione consiste sempre nell’ammissione di una sconfitta: o meglio, nell’ammissione della fallibilità del proprio lavoro, della sua precarietà, anche. Consiste nel giustificare di fronte al lettore, così come di fronte all’opera, le scelte che malgrado tutto si è stati costretti a compiere, sacrificando alcuni aspetti del testo per mantenerne intatti altri, nella speranza che alla fine la nostra traduzione possa dirsi non tanto fedele quanto piuttosto leale rispetto alle possibilità di senso dell’originale.
Ma come tradurre perceg? Verbo bisillabico fortemente fonosimbolico che ricrea quel rumore scandito e sommesso del legno rosicchiato dal tarlo, verbo che in una sua accezione ormai obsoleta era riferibile al ticchettio di un orologio, anche, e che contiene al suo interno la parola perc, “minuto”. Come mantenere viva questa strettissima interazione tra suono e senso (Orelli)? Scricchiola ci è sembrata una delle risposte possibili: per il campo semantico, per la grana fonica, per la natura sdrucciola del termine. È nel ritmo che risiede un’altra delle principali difficoltà incontrate: in ungherese l’accento tonico va sulla prima sillaba della parola, sempre. È per questo che mio padre – immigrato negli ’80 – pronuncia ancora sbagliati tutti i nomi della settimana: lùnedi, màrtedi…
«Le lingue» poi – secondo Jakobson – «differiscono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere»: calcinculo, allora, per körhinta (“altalena circolare”), è venuto spontaneo. Tentare così di mantenere viva l’immediatezza, la sintesi, l’armonia del vocalismo ungherese, di rispettarle nella loro alterità, consci dell’impossibilità di una loro appropriazione – e anche della scorrettezza che un tentativo tale avrebbe implicato. Si tratta allora piuttosto di circostanziare il limite dell’operazione, mostrare quanto non si è potuto accogliere, difendendo la verità della differenza per lasciare poi che il frutto di questa interazione possa prendere spazio nella sua autonomia di testo.
Noemi Nagy
zajtalan
nincs csend nincs minek háttal állni hallható a levegőt karcoló jelbeszéd térre függesztett hangjai jeltelen tűnnek el ha nem rögzíti őket a hallóideget pótló önkéntes agy a hóolvadás a karóra nagymutatója morajlik perceg látni véled hallani nem talán csak ha eggyé válsz az uralkodó mozdulattal
afono
non c’è silenzio non c’è nulla da cui volgersi è udibile nell’aria il tuo graffiare nel linguaggio dei segni nello spazio i suoni sospesi spariscono senza lasciare traccia se non li fissa il sostituto del nervo uditivo la mente intenzionale lo scioglimento della neve la lancetta lunga nell’orologio da polso tuona scricchiola a vedere riesci sentire no forse soltanto se diventi tutt’uno col movimento dominante
körhinta
a vége ha megvan idővel az eleje is megérkezik közben sok minden elmarad észre sem veszed amint eltűnik a céllövöldés a törökméz- a tűzifa- és a sárgabélűdinnye-árus és az akit nem akartál elveszíteni
calcinculo
se c’è la fine anche l’inizio arriva con il tempo nel mentre molto si perde neanche ti accorgi di quanto sparisce il tiro al bersaglio il venditore di miele turco legna da ardere meloni gialli e la persona che non volevi perdere
amerikai csendélet
törvénybe nem ütköző veszélyes utcák merész színekkel festett házak lakóik feltűnően próbálják elkerülni a balszerencsét a sziklakert kínaiaktól hemzseg kora este levegőzni hozzák kalitkanevelt madaraikat a járda keskeny vagy nincs egyáltalán a helyiek nem ismerik a környéket
natura morta americana
pericolose strade dimenticate da dio case dipinte di colori audaci i loro abitanti stanno provando a evitare la sfortuna palesemente il giardino di rocce brulica di cinesi presto, la sera portano i loro uccelli allevati nelle voliere a prendere aria è stretto il marciapiede o non c’è del tutto i locali non conoscono i dintorni
Gabor G. Gyukics (1958) è un poeta e traduttore ungaro-americano. Originario di Budapest, ha vissuto tra il 1988 e il 2002 negli Stati Uniti. Ha pubblicato otto libri, tra prosa e poesia, in ungherese e italiano. Suoi testi sono comparsi su oltre 200 riviste e antologie e sono stati tradotti in bulgaro, ceco e arabo. Tra i numerosi riconoscimenti, figurano il premio di traduzione Milàn Füst, nel 1999 e nel 2017; il premio Salvatore Quasimodo, nel 2016; e la nomina, nel 2020, di Hungary Beat Poet Laureate.