Se nel primo appuntamento di questa rubrica si era cercato di chiarire la metodologia e i possibili campi d’indagine per lo studio di una Moda intesa come eventuale forma artistica, adesso sembra logico porre concretamente la nostra attenzione, in primo luogo, sugli oggetti della moda. Per oggetti intendiamo quelle presenze materiali che sembrano «in grado di esercitare la propria forza espressiva anche solo attraverso lo sguardo»[1], imponendosi nel nostro immaginario per il fatto di esistere materialmente. A questo proposito, questione preliminare da cui occorre prendere le mosse è che cosa si intenda per arte. In questa sede, abbiamo scelto come riferimento il famosissimo – e talvolta abusato – concetto di aura, canonizzato da Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, edito nel 1936. Per aura Benjamin intende quella qualità immateriale che distingue un’opera d’arte da un semplice manufatto senza peso artistico. L’aura – che secondo Benjamin sarebbe stata distrutta, in epoca moderna, dall’avvento di fotografia e cinema – implica una lontananza tra oggetto e spettatore e l’impossibilità quindi di una fruizione immediata dell’opera. Si creerebbe così un’attesa che è anche tensione, aprendo alla possibilità di una comprensione infinita, poiché sempre imperfetta, dell’opera stessa. Secondo il filosofo tedesco, quindi, l’opera d’arte avrebbe sempre qualcosa di inafferrabile, proprio in virtù della sua aura. Tale concetto diventa funzionale al nostro discorso, perché le variabili che determinano la presenza dell’aura ci offrono dei fecondi punti di partenza sui quali innestare le nostre riflessioni.
Ogni volta che si prova ad attribuire alla Moda qualche valore latamente artistico, come prima obiezione viene sempre sollevato quello che noi chiameremo il fattore di indifferenza economica. Chi non riconosce valenza artistica agli oggetti di moda, suggerisce che l’Arte, nell’atto di creazione, non guarda alla vendita, mentre la Moda è pensata con un esplicito scopo commerciale. Va però sottolineato che non sempre le creazioni vestimentarie mirano a un profitto economico. A questo si aggiunga che, oggi, l’ingombrante retaggio romantico tardo ottocentesco dell’art pour l’art deve essere radicalmente ridimensionato. A tale proposito possiamo dire che, di solito, il pubblico a cui si rivolge un artista è un pubblico molto più ristretto rispetto a quello a cui si rivolge un creatore di moda. Per questo motivo, la percezione generale è che gli oggetti artistici non nascondano degli interessi economici, quando in realtà essi sono ben presenti. Che dire, per esempio, di De Chirico, che nel dopoguerra dipingeva copiando lo stile delle sue opere metafisiche, retrodatando i quadri al 1917 e creando dei veri e propri “falsi d’autore” per poterli vendere a cifre più alte? Senza scordare che Damien Hirst o Jeff Koons, oltre a essere tra i più geniali autori degli ultimi decenni, sono anche dei milionari, ben lontani dal modello di pittore maledetto alla Van Gogh. Con questo non si vuol dire che tutti gli artisti creino sempre per assecondare il gusto del pubblico. Anzi, molto spesso le quotazioni di un artista salgono per il tipo di ricerca personale che ha saputo condurre e per il carattere di novità che ha introdotto. Sarebbe però incauto affermare che l’Arte e l’economia viaggino su due binari paralleli. Sfatare, o almeno ridimensionare, il mito di una disciplina, ci permette poi di avere una diversa percezione dell’altra. Dal canto suo, la Moda ci ha abituato sempre più spesso a creazioni sartoriali per le quali è difficoltoso ipotizzare un incontro pacifico con i gusti di un vasto pubblico. Nel concreto, sarà improbabile che vediate una ventenne recarsi a una festa tra coetanei con addosso uno degli abiti in denim realizzati da Jeremy Scott per la collezione autunno/inverno dello scorso anno di Moschino, con minigonna che si apre in un imponente pannier stile Maria Antonietta. Senza contare che dagli anni Sessanta in poi si sono sviluppate le seconde e terze linee, a cui la quasi totalità dei creativi di moda demanda la presentazione di capi che incontrino il gusto (e il portafoglio) del grande pubblico, riservando la collezione principale per sperimentazioni più avanguardistiche e personali.
Un altro aspetto d’importanza primaria quando si parla degli oggetti della moda è quello della durata. Concetto tanto spinoso quanto affascinante, al punto da meritare una mostra al Metropolitan Museum di New York.[2] Qualcuno potrebbe affermare che la Moda è ciò che passa di moda, mentre le opere d’arte tendono a durare. Alcuni distinguo sono però necessari. In primo luogo, non si deve commettere l’errore di confondere la durata della Moda intesa come trend, con la durata dell’oggetto di moda. Probabilmente oggi il New Look di Dior, fatto di corsetti, enormi quantità di stoffa e gonne larghissime, faticherebbe a essere “di moda”, mentre tra 1947 e 1957 rappresentava il trend dominante. Esaurita però la temporalità legata al trend, il Modello “Bar”, solo per fare un nome, è oggi regolarmente esposto al Metropolitan, segno che a quell’oggetto vengono riconosciuti dei valori culturali che trascendono l’essere o meno “di moda”. Si potrebbe dire, al massimo, che gli oggetti perdono col tempo la loro funzione estetica, ma mi pare un’affermazione quanto meno soggetta alle oscillazioni individuali. Chi scrive crede che sarebbe scorretto affermare che l’unica variabile che determina un trend sia l’estetica. Se il Power Dressing si è affermato negli anni Ottanta le cause non vanno ricercate solo in una silhouette esteticamente accattivante, ma anche in un certo tipo di riferimenti culturali, sociali e politici propri del tempo: in altre parole, in un certo tipo di immaginario. Se poi guardiamo al mondo dell’Arte, dobbiamo riconsiderare alcune questioni spesso tralasciate. Non si pensa mai, infatti, che anche l’Arte può essere “di moda” e che spesso segue – e qui uso con coscienza un termine improprio – certi trend. È indubbio che la rivoluzione cubista iniziata da Picasso nel 1907 abbia poi dato seguito, per tutti gli anni Dieci, a una serie di sperimentazioni artistiche (Cubismo orfico, Cubo-futurismo russo, Vorticismo) che avevano nel Cubismo la matrice estetica e concettuale di riferimento. Per lo stesso motivo, noi ammiriamo i quadri di Picasso perché sono una testimonianza di un intenso e complesso periodo di sperimentazioni artistiche e culturali. L’eventuale componente legata all’appagamento estetico – che in quanto tale è sempre soggettiva – può essere presente, ma credo rimanga in secondo piano.
Terzo aspetto paradigmatico di possibile distinzione tra Arte e Moda è quello dell’inutilità. Anche in questo caso, però, il rischio di incorrere in un empasse è alto, per cui conviene procedere con cautela. Persiste talvolta il mito – e qui torna il discorso dell’art pour l’art – della libertà artistica che crea senza scopo ma per sola vocazione. Ma le creazioni artistiche non sono mai state inutili. Si pensi ai dipinti di epoca rinascimentale, con le loro funzioni celebrative, religiose, decorative e di ostentazione del potere. Solo con l’arte contemporanea queste funzionalità si stemperano, sebbene di contro ne subentrino altre, come quelle di denuncia sociale o di esplicitazione materiale di poetiche (soprattutto per l’arte concettuale e processuale). La Moda ha in più una funzione vestimentaria propriamente pratica, che l’avvicina più al design in questo caso. Semplificando, si producono abiti anche perché è necessario vestirsi, per cui gli oggetti della moda hanno una indubbia componente funzionale. A tale proposito ci si chiede però se non sia proprio questa funzionalità che, legando la creazione vestimentaria al corpo, ne accentui di contro un diverso tipo di qualità creativa. Quali manifestazioni artistiche possono dire di confrontarsi in maniera così simbiotica col corpo umano, fulcro primario delle esperienze fisiche e mentali di ogni individuo? Forse è proprio questo legame ontologicamente così stringente con la fisicità carnale di ogni individuo che permette agli oggetti della moda, nel mentre assolvono la loro funzione pratica, di dar vita a significazioni profondamente diverse rispetto a quelle che l’arte è in grado di offrire con i propri mezzi. D’altra parte, è anche lecito chiedersi che tipo di utilità possano avere, al di fuori della passerella, molte creazioni di stilisti di alta moda. Questa domanda la rivolgiamo al lettore, invitandolo, per farsi un’idea, a consultare il profilo Instagram gastt_fashion. Tanto per essere concreti, è improbabile che una creazione come l’abito presentato da Alexander McQueen per la collezione VOSS del 2001, fatto di gusci di cannolicchi destinati a sbriciolarsi parzialmente durante la sfilata, possa avere una qualche concreta funzionalità vestimentaria una volta terminata la sfilata. È superfluo aggiungere che di esempi come questo se ne potrebbero fare ad abundantiam.
Infine, l’autorialità. Pare innegabile che nel mondo dell’Arte la firma rappresenti la certificazione autoriale della qualità dell’opera, mentre nel mondo della Moda, le creazioni vestimentarie rimangono per lo più anonime. Come detto, pare. Difatti, questa affermazione può essere vera solo in parte. L’arte contemporanea ci ha abituato a pratiche sempre più estese e diffuse di sottrazione, di fuga dell’autore a favore dell’anonimato. E se all’inizio del secolo scorso Duchamp ha innestato i germi di questa pratica, sarebbe sbagliato considerare questa voluta perdita dell’autorialità solo come fenomeno episodico. Si guardi, per conferma, al Graffitismo, quell’“arte di frontiera”[3] da più parti considerata come l’ultima avanguardia del Novecento, oppure, per venire all’oggi, alla pratica del meme, forse davvero approdo ultimo di una creatività “selvaggia”[4], errante, incorporea, popolare e, soprattutto, anonima. Per tornare alla Moda, oggi la firma pare essere stata sostituita dal brand, che racchiude in sé una serie di questioni legate all’identità del marchio, all’heritage, alla riconoscibilità del prodotto, con il fine ultimo di distinguersi sul mercato. Nonostante questo, credo che molti grandi creatori di moda dei nostri tempi, anche quando hanno firmato collezioni per conto terzi, abbiano mantenuto una forte cifra autoriale. Anche qui i possibili esempi si sprecano. Un tailleur realizzato da Karl Lagerfeld non è certo uguale a quello di mademoiselle Coco. Il retaggio su cui si sono innestate le creazioni del Kaiser della moda è quello caratteristico del brand Chanel, ma la creatività è cifra stilistica solo di Lagerfeld. Allo stesso modo, nel momento in cui ideavano le collezioni per il marchio Dior, sia Gianfranco Ferré che John Galliano hanno saputo conservare un alto tasso di autorialità, che rendeva subito riconoscibili le loro creazioni. Per lo stesso motivo, non credo ci possano essere dubbi sulla forte componente autoriale che contraddistingue oggi, solo per fare due nomi, Virgil Abloh o Alessandro Michele, rispettivamente direttore artistico della linea uomo di Louis Vuitton e direttore artistico di Gucci.
Arrivati a questo punto il lettore si renderà conto che è altamente improbabile – forse impossibile – imbrigliare gli oggetti dei due ambiti in definizioni stringenti, tracciando con riga e squadra linee nette di demarcazione. Si spera però che una trattazione di questo genere riesca a suscitare non solo curiosità, ma anche una riflessione che conduca a una percezione possibilmente più ampia di questi fenomeni.
Con la questione sull’autorialità stiamo però scivolando dagli oggetti di confine verso la questione dei soggetti, artisti e stilisti, e, soprattutto, verso l’indagine delle loro pratiche operative. Questo però richiederà un ulteriore spazio, un diverso tempo.
[1] M. Pedroni e P. Volonté, Introduzione. Oggetti, pratiche e istituzioni di due campi sociali correlati, in Moda e arte, a c. di M. Pedroni e P. Volonté, Franco Angeli, 2012.
[2] About Time: Fashion and Duration (New York, Metropolitan Museum of Art, 20 ottobre 2020 – 7 febbraio 2021).
[3] La definizione è di Francesca Alinovi.
[4] La definizione è di Valentina Tanni, di cui si consiglia la recente monografia Memestetica. Il settembre eterno dell’arte (Nero Editions, 2020), che indaga in maniera specifica l’arte dei meme.