Tutto il colore del mondo
prefazione di Mauro Querci
Il giallo-rosso-verde-blu di un muro nel cielo e nella luce di Los Angeles. Strisce di campi, come arcobaleni, tra Puglia e Basilicata. Tagli minimali di asfalto dove s’incrociano grigio e bianco, su cui passa veloce un’ombra. A guardare una foto di Franco Fontana si può anche pensare: «Be’, questa la avrei potuto scattare anch’io». E invece no. Il suo stile che accende i colori, seziona forme decisive di mondo, rimette al posto che gli compete la persona umana – un elemento fra tanti altri – non si può confondere. A me ha sempre affascinato. Sembra che dall’immagine escano direttamente sole e calore. Squillano le sue foto, anche se è nuvoloso all’orizzonte.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo un paio di anni fa, in occasione della mostra monografica Sintesi, che la sua Modena gli ha tributato. Fontana abita in periferia, dove la città diventa campagna dietro un angolo. Si entra nella sua casa e, salita una scala stretta, ci si ritrova a viaggiare tra le sue fotografie e quelle degli amici – e che amici: Henry Cartier-Bresson, Sebastião Salgado, Douglas Kirkland, solo per citarne alcuni. Poi si comincia a parlare e Fontana, al quale parlare piace assai, ti sa sorprendere. Ecco che di fronte a certi scatti che possono apparire assolutamente metafisici dice: «Per scoprire il principio che c’è dietro un’immagine io ho bisogno del mondo, dei suoi elementi. Non riuscirei a scattare una foto astratta».
Questo fotografo ha la capacità rara di comunicare ancora l’entusiasmo per la realtà che lo circonda. Tutto può essere interessante. A ciascuno – dice spesso – gli stessi elementi parlano in modo diverso. E lui, anche ora che ha 87 anni, cerca di liberare lo sguardo e andare all’essenza. Con curiosità, con la passione che non sbiadisce.
È bello, poi, quando ti porta nel suo studio: assediato com’è di raccoglitori di immagini e diapositive, ma poi anche prove di stampa, cd musicali, boccette di profumi, decine di ritagli attaccati al muro, foto con dediche di persone conosciute e nelle quali, evidentemente, ha lasciato il segno: Anthony Quinn, il mattatore di Zorba il greco, gli scrive sul bordo di una polaroid: «Una gran amicizia ha nato qui… al mio Fontana de talento».
Ha il grande dono, Fontana, di attraversare il mondo e raccoglierne le «pepite» in forme di colore. Vibrazioni.
Prima di salutarci – alla fine di un incontro in cui è netta la sensazione di avere imparato davvero qualcosa di prezioso – oltre a fare una dedica gentile su un libro, ha voluto l’indirizzo di chi scrive. Per spedire una di quelle straordinarie buste-collage che «compone» adesso, che non può fotografare come prima… sull’involucro, un mosaico di ritagli da magazine, timbri, scritte a mano, vecchi francobolli, adesivi pop. La busta è arrivata regolarmente, qualche giorno dopo l’incontro. Altri pezzi di mondo assemblati insieme. Fontana, straordinario, sa creare anche senza scattare.
Intervista a Franco Fontana
a cura di Cecilia Angeli
In che modo la fotografia è diventata il suo linguaggio?
Come metafora, io dico sempre che la fotografia è acqua risorgente, quindi è potabile. Non è diventata, le cose prendono forma mano a mano che cammini, il cammino diventa un cammino e si forma un significato, quello che esprimi con pazienza, coscienza, volontà, contrasti. Tutto quello che scegli tu. Com’è diventata? Una delle cose più incomprensibili della vita e che conta di più è quello che non si vede invece che quello che si vede. Ho preso coscienza di quello che poteva essere la mia radice. Ho la mia identità, il mio stile, piace o non piace, il problema non è più mio.
Potremmo pensare al linguaggio fotografico come a un atto naturale a cui si è avvicinato o è invece un atto indotto, una situazione, un evento esterno?
Come ho cominciato a fotografare non lo so. Un giorno fai un bambino, com’è rimasta incinta? È il momento di essere fecondati. È una fecondazione. Uno nasce, vede, si guarda intorno, legge, va a teatro, al cinema, conosce amici. Anche gli incontri sono importanti e certi sono anche definitivi. Dopodiché ti formi, ti fecondi e tutto questo diventa un tuo sapere, un tuo modo di esprimerti. L’importante è che tu abbia uno stile perché significa identità e arte. Identità significa essere riconosciuti per quello che si fa. Quando mi dicono “eravamo in Provenza e abbiamo visto i tuoi paesaggi”, cosa significa? I miei paesaggi? Non sono i miei, sono di tutti. Però vedevano il paesaggio perché tra virgolette gliel’ho fatto vedere io così il paesaggio. Io sono diventato il paesaggio e il paesaggio è diventato me.
Parla di identità. Crede che avrebbe potuto avere un’identità che non sia quella del fotografo?
Se avessi potuto scegliere, avrei scelto lo scrittore. Ma non è che uno si alza e al mattino sceglie di diventare uno scrittore, un pittore, un geologo. Bisogna avere la pazienza di capire quello che la vita ti porta e quello che semina. Il raccolto viene o non viene. Senza la fortuna. Io sono stato fortunato e quello là no. Non è così. La fortuna non hanno capito che è una forma di intelligenza.
Quanto è fondamentale uno “stile”? Trovare uno stile e farlo proprio per tutto l’esercizio della pratica?
Sì, è importante. Ma la cosa più difficile è trovare uno stile. Io il mio ce l’ho, poi piace o non piace. Il problema dell’identità è che sei qualcosa, dopodiché non devi preoccuparti se non piace. Se ci si avvicina alla fotografia, non si risolve comprando le macchine fotografiche, gli obiettivi o quello che vuoi. Devi cercare dentro e non cercare fuori. E poi bisogna cominciare.
Si ricorda la prima fotografia scattata?
No, non me lo ricordo nel modo più assoluto.
Si ricorda quanti anni aveva?
Ho iniziato a scattare quando sono venuto a casa da militare. C’era un ragazzo con me che aveva una Rolleiflex. Io ero nei carristi, con i carrarmati. E vedevamo queste foto, che belle che belle. E io vedevo lui che si esprimeva fotografando. Illustrando quello che fotografava. Ho un ricordo di lui nel portafoglio dove siamo in un tiro a segno in un Luna park. Lui sta sparando, ha centrato, è uscita la foto. Siamo io di fianco e lui che sta mirando. Allora gli ho detto: questa la devi regalare a me. È datata: «Vercelli, 16 luglio 1955». In un mondo vigliacco ove tutto è menzogna, qua apri il tuo pacco e trovi una zampogna. Così passano gli anni e l’oblio sotterra tutti gli affanni, ma la terribile visione della mia effigie ti seguirà fino alla tomba, firmato Balestrini Bruno». Non so se sia vivo o se sia morto. Se è vivo ha 89 anni perché io sono andato al militare un anno prima. Io lo cito sempre perché mi rimase impresso lui con questa Rolleiflex. Poi sono venuto a casa da militare e sono andato a prendere una macchinetta a noleggio e così andavo in giro a fare le foto. Perché ti sei innamorato di quella lì e non di quella là? Non lo so, mi attraeva quella lì e non quella là. Poi vai a sapere l’origine di quello che succede. Ho cominciato così, piano piano. Poi ho cominciato a lavorare, ho fatto tutto un altro lavoro, mi è venuta però la passione. Il sabato o la domenica oppure durante le ferie andavo ad esempio al lago di Mantova – io abito a Modena – a fare delle foto con un altro mio amico fotoamatore iscritto al foto club di Modena. È stata una fecondazione molto lunga. Ho preso coscienza definitivamente di quello che volevo fare nella mia vita. La fotografia, ma non il fotografo che compra le macchinette. Io faccio la fotografia come si fa il pittore o lo scrittore. Il mio modo per esprimermi, rischiando quello che devo rischiare. Piano piano sono arrivato al 1976. Avevo un’attività che andava molto bene, una società. Ho liquidato di sana pianta una mia parte al mio socio, il 31 marzo 1976. Lo ricordo perché dissi: tu hai delle idee per sviluppare questa nuova azienda che a me non interessano, non me ne importa assolutamente niente. A me interessa la fotografia. Quindi sarei d’accordo di mettere in vendita la mia quota. Lui l’ha comprata nel giro di mezzora. Dicono che a quaranta anni comincia la vita. Io ho venduto tutto per iniziare a vivere di fotografia. Non che io faccia il fotografo ai matrimoni, battesimi o funerali, no? Mi sono separato dalla prima moglie, con la seconda è un cinquantennio che sono insieme. Ho cominciato a vivere a quaranta anni, a scegliere la vita che volevo fare. Dicono che dare qualità alla vita è fare quello che ti piace fare. Quello che ti piace fare significa il modo in cui lo fai. Questo è quello che conta.
Nella sua produzione ha molta importanza la composizione che va a creare una precisa geometria, un disegno grafico. Questa viene rintracciata nella realtà oppure creata a partire dagli scatti? La geometria compositiva è un punto di partenza o un punto di arrivo?
La mia non è geometria e neanche disegno grafico. È contenuto della forma. La forma è quello che significa vita. È tutta una forma la vita no? Significare la forma è dare vita, contenuto, identità a quello che fotografi. Poi la forma può diventare geometrica o non geometrica, ma la finalità è quella di significare la forma.
Da un punto di vista estetico e formale…
Sì, tutto ha una forma. Io ho una forma, lei ha una forma, una bottiglia ha una forma. Significarla è renderla con un’identità. Quando io fotografo un paesaggio, io entro nel paesaggio e lui si autentica attraverso di me. Il paesaggio e Fontana diventano una cosa sola. Ha un’identità, io gliel’ho attribuita. Ai colori, soprattutto perché non era mai stato fatto prima. Quando ho debuttato con il paesaggio ho pubblicato in tutto il mondo. Questo l’ho iniziato a quarant’anni. Ma io non ho fatto solo questo.
Il colore ha un ruolo predominante. Perché lo ha preferito al bianco e nero?
Il colore è la vita. Quando sono partito ho fatto anche il bianco e nero, ma per vedere, per collaudare. Diceva Paul Klee che il colore è il luogo dove l’universo e la mente si incontrano. Come sostanza, la forma è la chiave dell’esistenza. Io la esprimo in fotografia, testimoniandola nello spazio e in colorazione con le cose nello spazio.
Ci sono stati fotografi restii ad abbandonare il bianco e nero e a convertirsi al colore.
Fotografare a colori è molto più difficile. È quello che vediamo. L’arte non accetta quello che vedi. Devi far vedere l’anima dell’arte. Ho fatto diverse fotografie di paesaggi, ma non si tratta di paesaggio e basta: rappresenta l’esistenza. Il ministero della cultura francese ha voluto una mia foto, mandata in tutte le loro ambasciate per la diffusione del pensiero francese: non è più, non è mai stata la foto di un mare fatta in Italia. La stessa foto è stata utilizzata anche per un grosso volume di filosofia pubblicato in America. La stessa foto. C’è l’anima della vita. È d’altronde la fotografia creativa. Cosa ha voluto dire Fontana con quella foto? Quello che ci vedi tu. Cosa ha voluto dire Beethoven quando ha scritto la Nona? Io vado a sentirla e mi metto a piangere, lei si mette a ridere. Si capisce solo quello che portiamo dentro di noi. Io scrivo di ciò che ho dentro. Il significato non illustra, è un contenuto come la musica, la poesia. Le fotografie non illustrano niente, significano l’esistenza a 360 gradi. Bisogna anche far capire che la creatività pensata con l’aiuto del colore anche in fotografia non è sinonimo di creazione arbitraria, perché è una maggiore creazione arbitraria il bianco e nero. Ma è un movimento che genera vita e non sofferenza. Il colore è una sensazione, un’interpretazione fisiologica, psicologica, emozionale. È la vita. È difficile perché quando fotografi il colore fai una fotografia che diventa una torta gelato oppure fotografi il colore che non rimane un oggetto, ma diventa un soggetto. Il colore è più difficile perché devi reinventare quello che vedi, è come Picasso che fa la donna con tre occhi. Quella è la verità? No. Ma la guardi e non finisci mai di guardarla. Io vedo il colore e lo vivo. Per esempio, il tramonto è già bello di per sé. Ma è la causa e il pretesto per viverlo, al di là di quello che si vede.
Quando lei fotografa i colori, li restituisce come li vede o come vorrebbe che vengano visti?
Io ho fotografato quasi tutto in «analogico». Ho iniziato a fotografare in digitale circa quindici anni fa, quando ha cominciato a essere di qualità. Non vado in giro a fare fotografie, ma quando mi capita di fare qualcosa uso il «digitale». La committenza non la faccio quasi più, l’ultima è stata per una azienda di moda.
Lei ha deciso di eliminare (o quasi) dalle sue fotografie la presenza umana, diversamente da alcuni dei suoi contemporanei. Perché questa scelta?
Non è sempre stato così. Ho voltato pagina più volte perché se non volti pagina continui ad andare avanti di sole esperienze e senza sicurezze, l’unica è la morte, rimani dove sei. È appena uscito un libro. Mi hanno comunicato qualche giorno fa che mi è stato dato il premio Hemingway per un libro che ho fatto adesso, per ora uscito solo in edizione francese con testi in inglese. Il titolo è America. Ci sono fotografie di persone. La gente in strada, la gente che vive e che vedevo. Poi ho fatto la gente anche da morta, non solo da viva. Nel cimitero di Staglieno, ad esempio, esposta nel museo di Genova. Si chiama Vita Nova perché ho interpretato il cimitero non con la morte, ma con la vita. Ho fatto di tutto, la fotografia a 360 gradi. Perché la fotografia è un pretesto. Ho fatto anche quattro anni di moda per Vogue America. Io sceglievo la location, loro mi mandavano assistenti, modelle e ogni grazia di dio. Ho fatto tutto in Italia, a Venezia, Siena, tranne una volta a Parigi. Ho fatto tutto, tranne il ritratto. Ma in realtà anche quello. Ritratti spontanei, non in sale di posa; non atteggiamenti. Ho fotografato più quello che sei che come appari.
Ha preferito tuttavia non dedicarsi alla fotografia di reportage o documentaristica.
No. Ho lavorato anche per La Repubblica, ho fatto tanti servizi per loro. Mi davano un compito e andavo: mi davano il Palio di Siena e lo facevo. Mi mandavano a fare la cena del Cinquecento a Venezia in costume e andavo lì; mi mandavano a fotografare Renzo Arbore, gli attori. Per una parte della mia vita ho fatto il professionista. Calendari per la Fiat, per la Volkswagen, campagne pubblicitarie di tutti i tipi. Poi c’è la parte creativa. Da una parte faccio la cronaca di Juventus-Roma e dall’altra parte faccio il letterato. Perché l’alfabeto è uguale per tutti. Però io scrivo Buon Natale e Dante Alighieri La divina commedia.
Ora sta lavorando a qualche progetto?
Sì, ho un progetto che vorrei sviluppare con Italo Zannier. Dovremmo fare insieme la Quinta Strada, però bisogna che passi il Covid perché adesso non ci si può andare a New York. L’unico progetto che abbiamo in tasca è quello lì. Lui dice che io la farei in un modo come non è mai stata fatta. Questo non lo so perché bisogna vedere dal vero. Quando sono là magari non mi ispira niente. L’ho vista mille volte la Quinta Strada perché in America ci sono stato. Ho fatto anche la Route 66. Nel 2001 è uscito il mio libro fotografico su quella strada lì che è l’unico. Così la fotografia è un pretesto. Vuol dire che la fotografia è il fotografo. Sei tu la fotografia, al di là di quello che fotografi. Quando io fotografo la bottiglia, non rimane mai una bottiglia, diventa un’identità. Come i peperoni di Weston. Non sono dei peperoni, è musica, è scultura, è vita, è tante cose. Il peperone è un pretesto che ha usato il fotografo.
Ci sono stati dei riferimenti nella sua pratica fotografica?
No, non ci sono stati riferimenti. Io non ho copiato da nessuno. Ho conosciuto personalmente tanti fotografi, purtroppo alcuni non ci sono più. Non ho mai copiato e non sono mai stato influenzato. Sono sempre stato influenzato da una mia sensibilità, vivevo quello e non ci vedevo la somiglianza con altro. Neanche con la pittura. Certi critici fanno il paragone tra la fotografia e la pittura. Ma la fotografia non ha uno stile moderno o impressionista. È fotografia e basta.
Che consiglio darebbe a un aspirante fotografo?
Molta umiltà. La fotografia non è la macchina fotografica come la Mont Blanc d’oro non ti aiuta a diventare uno scrittore. La macchina fotografica è la fronte. Che macchina usa Fontana? Io mi batto sulla fronte perché questa è la mia macchina. Quindi molta umiltà e frequentare certi corsi di fotografia, ma non tecnici. Quelli ne fai due o tre e poi capisci che hai imparato a scrivere e puoi dedicarti al contenuto, a quello che scrivi. Fare dei corsi con dei personaggi che ti aiutino a capire quello che sei e non quello che vorresti essere.
E che consiglio darebbe a chi si avvicina alla fotografia per passione e non in una prospettiva professionale?
Oltre all’umiltà, la voglia di fotografare il contrario di quello che gli piace perché nel contrario c’è una verità che non c’è nel consenso. Anzi c’è più verità nel contrario che nel consenso. Perché questo, come metafora, è quello che ti hanno fatto diventare; mentre quello che sei è più nel contrario. Io quando insegno faccio fare esercizi contrastanti per dare un’età delle differenze. Si accende la luce per differenza. Perché questo dà significato a qualcosa che non immagini neanche. Fotografare quello che non ti piace. Quello che non fotograferesti mai, così poi possiamo discutere di una verità più vera.
Ha insegnato. Per quanto tempo?
Sì, sono quarant’anni che insegno, anche al Guggenheim a New York. Ho insegnato alle accademie a Bruxelles, a Parigi, a Tokyo. Faccio un corso di fotografia che non è proprio un corso di fotografia. Non vado a fare l’insegnante, vado a imparare per fare l’allievo. Non voglio diventare un maestro. Ho ancora la gioia di vivere la vita dal vero e non così per sentito dire davanti alla televisione. Ho avuto dei ragazzi che hanno fatto corsi con me trent’anni fa. Fare un corso con Fontana è come fare un corso in America con altri maestri famosi. C’era quello che insegnava quello che sapeva fare lui, ma non serve. Cosa faccio a insegnarti il mio paesaggio? Perdi solo del tempo. Io vado a fare il tema, non il dettato. Qualcuno di questi miei allievi, per modo di dire, hanno avuto una storia, una carriera, hanno fatto libri e tutto di più. Altri si sono persi nel nulla. Il mio corso non è la corte dei miracoli. Se diventi famoso è merito tuo; se non lo diventi lo stesso.
Qual è la fotografia che non c’è ancora e vorrebbe scattare?
Quella che la vita mi porta, se riesco a capirla. O sennò lasciamo perdere.
Immagine di copertina: Franco Fontana – Puglia 1978