Amore e Apocalisse. Cinque racconti brevi inediti

La call per racconti brevi si è conclusa da ormai più di un mese, con un bilancio complessivo di poco più di 50 componimenti ricevuti: ci teniamo a ringraziare tutt* l* autor* che hanno partecipato. Oggi siamo felici di potervi finalmente presentare il risultato di questo splendido florilegio di amore e apocalisse: cinque racconti brevi inediti, spazi altri in cui l’angelico sfida lo xenomorfo, l’elegia affronta la carne, la compressione si vaporizza e lo zolfo aggredisce ogni cosa.

Come anticipato all’interno della call, da oggi sarà disponibile – presso il Crack! Festival di Roma (dal 20 al 23 giugno), al banchetto del collettivo DISERTARE! – una meravigliosa stampa in formato A3 dotata di un’articolazione transmediale, ovvero di un QR code che rimanda sia a questa pagina, che soprattutto al percorso multimediale che il collettivo ha programmato attorno ai racconti selezionati (clicca sul link, seleziona “Flugblatt II” e alza il volume: ne vale la pena <3). Sono infatti due le versioni finali risultanti da questa call: una a cura di lay0ut e l’altra di DISERTARE!
A differire sono le modalità di fruizione, l’affordance della raccolta, nonché l’ordine dei racconti selezionati.

Due percorsi diversi, due binari tematici, due realtà culturali a dialogo.
Non resta che leggere.

Un progetto a cura di Pietro Bocca e Gabriele Presta.


Nico della S*

di Gabriele Di Donfrancesco

Mi fermo all’autogrill della S* tornando da Milano perché me l’ha chiesto il mio ragazzo, non per altro, sono stanco, però mi dico che è giusto farlo, l’idea riesce comunque a gonfiarmi il cazzo mentre guido, perciò parcheggio e i led della S* si fissano nella retina. È notte, apro il bomber, sbottono la camicia; l’altro giorno mi si è strappato il jeans inginocchiandomi e adesso trasborda un po’ di coscia; avrei voglia di farmi sbocchinare dal mio ragazzo, l’ultima volta che siamo passati l’ho fatto bere mettendolo all’orinatoio, poi però è arrivata troppa gente e si è sentito a disagio. Ce ne stavamo andando quando abbiamo incrociato il tipo, un boro col cappuccio, ma ormai eravamo usciti, e al mio ragazzo è rimasto l’amaro in bocca: se ci torni e lo becchi me lo dici?
Stavolta resto sulla soglia, la luce verde mi bagna il fianco, ignoro un papi forte che mi squadra, finisco per pensare al lavoro: mi annoio. Alle quattro e mezza sto per andarmene, con la schiena e lo stivale contro il muro sembro un agente provocatore, poi però lo vedo scendere da un camioncino dell’E*, servizio pronto intervento tecnico, pantaloni cargo e giacchetta catarifrangente, il cappuccio della felpa dell’altra volta appoggiato sui capelli rasati, la barbetta, e allora mi dico, cazzo se è bello.
Mi faccio sbattere contro le piastrelle, il tipo non molla un attimo lo sguardo.

Il mio ragazzo per poco non urla quando apre la porta e si ritrova Nico, 21 anni, chissà che cazzo mi è preso di portarlo a casa, e ci presentiamo di nuovo, io Lucio, 30, e Bernardo, 28 — ma non si fa, non si porta il tipo del cruising a casa, non lo si porta in città tra le cose del giorno, è una resa, umiliarsi nudi a comando, basta che apri la bocca, che apra la bocca, e sai già troppo, la scopata c’è solo se stai zitto. La deve sentire pure lui la puzza di borghesia di Bernardo, mi chiedo se gli darà fastidio. Invece ci stringiamo le mani, sulle nocche si tira il tatuaggio di Nico, l’inchiostro gli sale fino alla spalla, sbuca un po’ dal collo, e poi quel fisico non è possibile che ce l’abbia a 21 anni, quando è iniziata la sua vita, mi chiedo mentre prende il caffè in cucina e ci guarda, scandaglia la casa, che ho fatto, Bernardo cerca da me una risposta che non so dargli: ci pensa Nico al mio posto, quando la notte se lo scopa con gusto ma senza sentimento, guarda solo me mentre gli schiaccia la faccia contro il materasso.

Nico resta e ce lo troviamo il giorno dopo e quello dopo ancora. Dorme al centro del letto. A volte vorrei abbracciare Bernardo nel sonno, toccargli il buco del culo dopo il passaggio di Nico, invece il ventunenne è lì in mezzo. Quando mi abbraccia è così forte che non riesco a districarmi, Bernardo nemmeno si accorge di esser rimasto solo. Al mattino, siamo in due ad accarezzare le cosce di Nico, la cicatrice sul collo. Dove te la sei fatta? Non te lo dice, o se te lo dice non si capisce se scherza. Continuo a non credere che abbia l’età che dice di avere. Nessuno gli ha mai chiesto i documenti.
Del suo passato racconta molte cose e in fondo niente. Sulle prime non capisci se siano vere. Le dà via così, le informazioni, ma sono sempre rivelazioni violente. Se ti vede perplesso, o spaventato, perché certe reazioni uno non riesce a impedire che gli guizzino in faccia, si affretta a dire che il suo ruolo con noi non sarà mai quello. Usa questa parola, “ruolo”. Il che fa sorridere, perché è piccolo, ma in quei momenti te lo dimentichi, e allora è davvero più grande, Nico, e più virile, più sveglio; ti dice che ha un “ruolo”, sebbene sia io ad averlo trovato e portato a casa con me. Di fronte a lui, la nostra vita di coppia pare solo un riflesso smorto di quel che si potrebbe fare e che Nico, per qualche ragione a noi sconosciuta, ha fatto: il livello bonus di un videogioco, l’accesso nascosto tra le pieghe della mappa.
Con Bernardo non so fino a che punto spingermi per parlarne. Lavora da casa, Nico ancora dorme quando lui prepara la colazione. Io con un cenno saluto ed esco per andare in ufficio. Verso mezzogiorno Nico riparte col camion. Non si capisce che orari abbia. Non segue i nostri, siamo noi che ci adattiamo ai suoi.
Poi la notte ci scopa e ci porta in giro, non sappiamo dirgli di no, non so dirglielo nemmeno io; lavoro con gli occhi tumefatti dal sonno e la testa ancora nel locale, dove c’è fumo, fa caldo e Nico si lega la felpa in vita e ci trascina in pista; i suoi baci sono frizzanti, è un sapore che non conosco, si è calato una sostanza che non rientra nel mio dizionario. La mattina toppo una consegna, poi un’altra e ancora un’altra, a fine mese il capo mi dice che se non mi do una regolata me ne vado a casa, ma a casa c’è Nico che mi stringe e mi blocca lo sguardo dopo aver messo Bernardo in un angolo, che mi fa nascondere il mefedrone nelle scarpe quando passa la polizia, che mi bacia se passo in fretta la merce dal furgone. È un addestramento: attendo un comando per imboccare il bivio sbagliato e non tornare più. L’idea mi spaventa tantissimo.
Così quando ad aprile Bernardo non ce la fa, decido di non intervenire. Mi dice, non ricordo l’ultima volta che sono stato da solo con te. Sono mesi che Nico se lo scopa duro tappandogli la bocca. Sono mesi che non me lo lascia toccare. Io ascolto Bernardo e penso solo alle estreme conseguenze. Il mattino seguente, Nico scrolla le spalle, sembra deluso, mi  guarda e vede che resto muto — anche per questo non si portano gli sconosciuti in casa — e mi dà un colpetto sulla guancia, riempie il suo borsone, lo seguo dalla finestra mentre si allontana.

Trovo un nuovo lavoro e festeggiamo con gli amici di sempre, ma dove eravate spariti tutto questo tempo, un aperitivo e per le nove siamo a casa. Ci accarezziamo sul divano, ci abbracciamo a letto. Per un po’ non andiamo a fare cruising, per un po’ non facciamo tardi la notte; continuo a sentire tra le coperte il calore di qualcuno che non c’è.
Un giorno, per farmi una sorpresa, Bernardo mi porta su una terrazza e mi regala un bracciale, io per tornare alle vecchie abitudini lo spingo nel bagno del ristorante, chiudo dietro la porta e lo faccio inginocchiare, quando bussano lui imbarazzato si tira su e mi chiede di andare; in macchina è contento, si stringe al mio braccio.
A casa però non riesco a dormire, mi chiedo se non si possa tornare indietro. Vorrei sentire Nico dentro di me un’ultima volta, allora prendo Bernardo come faceva lui, con la testa schiacciata contro il cuscino, senza degnarlo di uno sguardo, e anzi chiudo gli occhi e spingo per capire; all’alba lo sento singhiozzare, il mattino dopo non parla, la sera non lo trovo più a casa. Mi ha lasciato un biglietto, non ho la forza di leggerlo. Monto direttamente in macchina, sulle prime vorrei cercare Nico ma poi ci rinuncio e guido e basta.

Non tutti gli autogrill sono dei cruising, ne sorpasso un paio dove non si scopa — ma forse si scopa in tutti, la differenza è solo quanto. Quando mi fermo sono ancora vicino Roma, ma fuori città la notte è più fredda. Prendo una felpa dai sedili posteriori, mi tiro il cappuccio in testa. Sotto i neon del bagno incrocio una coppia che esce, si tengono per mano, il più giovane mi punta gli occhi addosso, io distolgo lo sguardo: non ti conviene, penso, e piscio in un angolo. Il mio riflesso sul tubo di scarico mi dice che dopotutto sto sorridendo.

Quello che conta

di Lidia Noviello

Lui sta per arrivare. Ti avevo chiesto di lasciar perdere, ma tu hai insistito. Non succede niente, hai detto, ci penso io, non ti preoccupare. Mi sto preoccupando. Sono seduta sul divano con le gambe rannicchiate, l’aria è pesante e la casa oltre il divano sembra immensa. Tu ti ci muovi tranquillamente, ti aggiri, ti sposti, segui traiettorie dettate dal caso e non sai stare fermo. Una volta questi tuoi scatti mi agitavano, li osservavo alla ricerca di un senso,  e di una direzione, e giravo a vuoto. Ora, mi dico, non mi agitano più: molto peggio quando mi ti siedi a fianco, accoccolato, mentre guardiamo un film, e io, pur di non interrompere il riposo della mia mano fra i tuoi capelli, di noi assorti nella storia, sopporto a malapena il tamburellare ritmato delle tue dita sulla mia gamba, l’oscillare del tuo busto, avanti e indietro, tap tap, su e giù, non mi riesco a concentrare.

Lui sta per arrivare e i pensieri si affollano in testa. Una volta, mi dico, credevo di poter riuscire a non pensare a nulla, i pensieri si affollavano e io li scacciavo, mi concentravo su uno, due, al massimo tre alla volta. Scegliere un numero, e attenersi a quello, diventa terribilmente importante; solo così i numeri fanno presa, segnano un limite al pensiero, un limite alla ripetizione, un freno alle cose che posso pensare di poter pensare. (L’ho letto da qualche parte e mi è sempre sembrato funzionare). Guardo l’orario sul telefono, dovrebbe essere qui a breve. Ti ho chiesto di parlare tu al posto mio, non sono certa del mio aspetto, non riesco nemmeno a immaginarlo.

To prepare a face to meet the faces that you meet.

Scaccio dallo schermo le icone insignificanti e una manciata di mail a scopo pubblicitario, poi lo blocco e lo lancio ai piedi del divano. «Amo, tutto okay?» il tuo viso di colpo è vicino, a una spanna dal mio, materializzato a portata di mano e di ritorno, deduco, da uno dei tuoi viaggi esplorativi per la casa. Hai gli occhi grandi, le ciglia folte, le sopracciglia un po’ alzate, vedo che mi vedi strana, voglio toglierti quello sguardo che mi fa sentire strana e perciò dico, sìsì, mi sono incantata un secondo, tutto okay. «Okay», mi fai eco, i tuoi occhi tornano fiduciosi, le sopracciglia si abbassano, prolunghi lo sguardo un secondo più del dovuto e stringi leggermente il mio polso mentre accenni un sorriso interrogativo. Ti sorrido a mia volta e la tua bocca si rilassa, mi strofini la guancia, mi scompigli i capelli, «piccolina!», poi me li riaggiusti dietro le orecchie, mi accarezzi ancora la testa, una, due, tre volte; la tua mano scivola via e volgi lo sguardo al telefono, la canzone sta per finire e vuoi scegliere la prossima.

L’aria è densa, la musica che hai messo ha un ritmo incalzante e suoni striduli, discutiamo spesso su cosa ascoltare, ti dico che la musica che metti mi piace ma mi fa correre troppo, non riesco a seguire i pensieri, specialmente quando fumiamo. Faccio ancora qualche tiro immemore del gesto, sono già bella andata, la mia mano si muove da sola, sarebbe stato meglio fermarmi qui, giro gli occhi per la stanza, distratta, e per un attimo, cercando di raccogliere i pensieri, cercando di ricordare l’antecedente, rincorrendomi a ritroso e in avanti di nuovo, all’arrivo di lui, al messaggio a cui devo rispondere, per un momento soltanto, le idee che si accavallano, mi sorprende la visione di un grande essere che respira, lo sguardo posato da nessuna parte, la porta sfocata e laterale mi viene incontro, dal fondo, vibra, ride? Ride, mi chiama, mi vede. Uno sguardo che parte da tutte le cose, mi ferisce, mi fa a pezzi, mi toglie il fiato. Se qualcosa mi sfiorasse adesso potrei esplodere, disintegrarmi, evaporare, annullata dall’intensità. Tutta la stanza palpita, la casa più indietro si sfalda, perde confini, cerco di pensarla, cerco di fermarla, mi respira addosso, se chiudessi gli occhi sarebbe la fine. Fisso lo sguardo prima sui muri, poi negli angoli, poi sulla porta; una per volta ogni cosa si ferma, io continuo a guardarle per tenerle ferme. Respiro e conto, conto per respirare. Uno, due, tre; uno, due, tre, espira.

So it is by means of numbers that repetition (which is per se indefinite, and potentially infinite) becomes practicable again.

Torno indietro, mi fermo: ecco, hanno suonato al citofono. Richiamato dal suono squillante ti volti di scatto: «Eccolo!» dici e ti sfreghi le mani, ti alzi. Uno, due, tre; cerco di pensare ai punti in cui il mio corpo tocca qualcosa, incontra resistenza, come al corso di yoga. Cerco di arrestare la mia fuga, guardo le mani e noto di star stringendo forte la coperta, provo a rilassarle. «Sì?» chiedi alla bocca del citofono. «Quarto piano» dici di nuovo e ringrazi, la voce è alta, sei felice. Fai avanti e indietro per la casa cercando gli occhiali, sento il rumore delle porte dell’ascensore che si aprono e si chiudono, il meccanismo in funzione, le porte che si aprono di nuovo. Suonano alla porta e tu apri, saluti, con una mano prendi i sacchetti mentre con l’altra cerchi nella tasca qualche moneta per il tizio che ci ha portato da mangiare. Il tuo fare cordiale, la tua espressione familiare e così adatta a rispondere a lui che ti parla mi sembrano magiche, il tuo corpo disinvolto pare ricomporre il mondo, ricucire lo scenario impastato dalla mia mente, riportarmi a terra.

Lo scambio dura una manciata di secondi. Sorridete entrambi, non c’è nessun intoppo. La porta si richiude leggera mentre nell’androne risuona ancora la vostra risata.

Abel

di Beatrice Baldotto

Abel ha combattuto una guerra nucleare senza che ci fossero stati giorni d’arruolamento coatto. Niente uniformi, niente addestramenti caserme proiettili stivali con la punta metallica. Nulla. Solo una grande esplosione al centro esatto delle cose. Con una risonanza fino ai bordi della Russia. L’onda di propagazione aveva creato un ambiente riarso, ingrigito, inospitale. Abel era morto e si era risollevato prima degli altri. La schiena nuda nella catastrofe si era incollata al cemento della strada e lasciava dietro di sé filamenti sciolti, come di plastica bruciata. Aveva subito cercato la sorella, tra la polvere e un fischio persistente dietro le orecchie. Marianna aveva indosso il suo vestito da bambola, coi fiocchi e le maniche a sbuffo. Era sdraiata lì accanto a lui, pareva avesse dormito. Abel la prendeva per mano, le raccomandava di non allontanarsi mai, per nessun motivo, e di stare lontana dagli oggetti che avesse trovato in terra: penne, banconote di grosso taglio, tubi metallici, sorprese degli ovetti di cioccolato (le uniche cose per lui rimaste erano pericoli). Già manifestava sintomi paranoidi nei confronti delle bombe. E ogni rappresentazione era in potenza un ordigno; ogni dispositivo un trauma. Era stressato, troppo sensibile, e i suoi timpani subissati da un acufene dei peggiori mai provati: vedeva le labbra muoversi, non sentiva alcun suono. Solo una voce, da molto lontano e da dentro.
Vedeva che non era rimasto nulla di come se lo ricordasse. Si sentiva arrivargli contro il vento con le schegge della scissione nucleare. Sapeva che più lo avrebbero ferito, più lui avrebbe preteso di rimanere immobile, di ripiantare i semi e proteggere ciò che ne sarebbe cresciuto. Finché c’è carne da consumare, abel rimane. Quando si arriva all’osso, abel sacrifica anche quello. Ogni presa di posizione esclude l’alternativa perché porta gli obblighi del destino, Abel si sottrae alla casualità, cerca di capire la voce oltre il fischio (la voce cerca a sua volta di capirlo, entrambi grazie a Dio hanno una direzione).
I due presero a camminare. La sorella avrebbe voluto fargli tante domande: non vedi che ci sono i fiori agli angoli delle strade, che ci sono le macchine che inchiodano e ripartono, non ti accorgi delle persone, abel, non ti rendi conto che siamo ancora su una terra che funziona? Chi tornava al lavoro a quell’ora – l’una di pomeriggio, marciapiedi trafficati – squadrava i due fratelli: abel a torso nudo, a detta sua ustionato, e marianna diciannovenne vestita da comunione, attaccata per mano al fratello, mentre allungava le falcate per reggere il ritmo. Una signora si fermò, domandando a marianna se fosse tutto a posto, se lei conoscesse quell’uomo con la testa rasata che la stava trascinando via.
Marianna le rispose che era suo fratello, che aveva combattuto una guerra nucleare e che lei doveva badare a lui. Che forse ancora la stava combattendo. Di fronte alla faccia allibita della signora – che giudicava i due come scoppiati, orfani, senzatetto – , marianna aveva mollato la mano ad abel, braccia lungo i fianchi, diritta con la schiena e in russo, in tono biblico, le aveva detto: «La mattina del mercoledì il Signore apprese da Noemi che le donne si erano riunite negli scantinati a pregare. Interpretò allora i segni della fine: convocò gli uomini della terra in file ordinate. Ai più deboli concesse la grazia della morte e ai più forti ordinò di restare. Quelli che non avevano sentito la voce, rimasero nei letti e nel tardo pomeriggio, poco prima della pioggia, bruciarono nel fuoco nucleare. Il Signore non diede nomi alle loro ceneri. Le loro ceneri trattennero gli spettri e li estinsero».
Abel pensava: di tutti gli uomini, io sono rimasto perché dovevo. Questo dovrà pur significare che io sono tutti gli uomini? Si figurava quella volta in cui erano andati fino alla lontanissima venezia e si erano scordati fosse carnevale: erano sotto un grande baldacchino e guardavano le barche sfilare nel canale e i marchesi in maschera, e le marchese con corsetti talmente stretti da togliere il fiato. Marianna tenendosi i lembi del suo vestitino, si sporgeva sull’acqua, si girava verso il fratello e piangeva. Gli dice: sono troppo felice abel, con la fronte corrucciata, sono così felice che non riesco a smettere di piangere, sto sognando, oh mi sento così bambina e so che non lo sarò mai più. Abel si ricordò dell’inquietudine di quell’attimo, di come gli avesse mozzato il respiro. Il pianto che diventava subito una sensazione obsoleta. La sua infanzia chiara anche. Il presente aveva già in sé il lutto degli eventi. Come tutti gli oggetti nascondevano una deflagrazione. Un cambio retroattivo di prospettiva (abel, io ho già qui esplicito il mio senso e la mia morte?). L’aveva tirata via dall’acqua, accortosi di quanto fosse pericolosa quella posizione – come tutto era pericoloso – con il trambusto che c’era, poi, sarebbe bastata una spinta da sovraffollamento, qualcuno che danzando la colpisse, anche di striscio.
Lei non aveva fatto in tempo a lagnarsi che i due si erano svegliati in mezzo a un giardino pubblico, una volta che era terminato il sogno, poco riposati, sconvolti, circondati dalle montagne (abel non le vedeva, non sentiva l’erba con la rugiada, non sapeva del prato, né del giardino). ’Anna era stesa sulla panchina. Usava le mani unite, palmo contro palmo, come un piccolo cuscino. Abel invece utilizzava tre manoscritti di carta ormai imbarcata, che avevano pieghe in ogni verso. Gli unici superstiti dell’estinzione. Un suo amico orfano (avevano questo in comune?) sempre in un parco gli aveva detto che per essere narratori bisogna raccontare alla maniera dei russi. Allora dallo zaino aveva tirato fuori i tre manoscritti prodotti per associazioni filosofiche legate alla pre-morte. Gli aveva regalato le sole copie esistenti. Abel era molto imbarazzato, si conoscevano troppo poco per accettare il gesto. Sentiva pesare quelle pagine come tavolette di pietra. Sentiva però di non poter rifiutare. Si era seduto sulla panchina più vicina, era estate e si poteva ancora leggere alla sera. Le parole dicevano tutte le cose che abel era: l’ansia e la morale, le rielaborazioni, le mosche impazzite perché sanno della catastrofe, prima che ci si addormenti, con i loro ronzii e battiti veloci d’ali. Gli mancò la madre, che gli aveva lasciato una poesia («te ne vai, poi torni») scritta da lei: la memoria spirituale del sangue, doveva ricordarsi dei rifugi antiatomici nei sogni, di una donna che arrivata di notte l’aveva trascinato per un braccio dove moltissime persone inginocchiate pregavano di fronte a una madonna di pietre preziose. Abel era diventato: fede, timore, istinto paterno di conservazione. I manoscritti lo descrivevano tutto, senza dire «ogni famiglia infelice…», «la storia dell’uomo è biblica», «i poveri sognatori». Abel doveva per questo tenerli sempre tutti e tre nello zaino, come la testimonianza della sua vita (interiore ed esteriore), anche se infinitamente pesavano. «Marianna, dormi?», la ragazzina si stropicciava gli occhi con le nocche.
Andavano verso la casa di infanzia, anche se erano senza coordinate – nessuna vetta, niente stelle, niente refoli con nomi precisi, solo un amalgama in cui la voce provava a districarsi, in cui tentava di raggiungerli. Abel incoraggiava la sorella. Nel sonno aveva sentito proprio la voce fornirgli indicazioni. Sapeva che si stavano avvicinando, anche se l’ambiente non variava. Marianna, che ci vedeva (case, tronchi, strade), stava al gioco del fratello. Annuiva. È ora di andare. Nel sonno la voce mi ha detto che non devi più prendere le medicine. Erano in una stanza, abel divideva pillole per la mattina, pillole per la sera, smetteva di disegnare, dimenticava le intuizioni. Si prendeva vicina la sorella, tra il muco e le lacrime le diceva: sono tanto triste, non sono mai stato felice; vedo le ombre mi spaventano, non sento niente anche quando penso alla fine. Non sono più… Lei gli rubava i blister e apriva la finestra per fare entrare luce (abel soffiava come i gatti) e buttava tutto nel canale di sotto: vedrai che felicità, d’ora in poi! Lui la faceva sedere su una seggiola. «Bambolina mia, bambolina» le metteva la testa in grembo «vuoi che ti pettini i capelli?», «per te, solo per te», «piango perché un giorno finirò», le pettinava i capelli scuri, le gettava le braccia al collo dandole un sacco di baci sulle guance, senza controllo, poi uno sulla bocca, e approfittava del momento contrastando con le labbra la paura che la sorella gli sparisse tra le mani, che fosse tutto un lungo insopportabile sogno. Più la baciava più costruiva un senso. Lei pensava: «È così che deve essere». Finivano la giornata con lui che dipingeva su un muro disegni con le ombre così giuste che sembravano uscire dalla parete per vivere. Dormivano sul tappeto, abel aveva crisi epilettiche (’anna gli infilava un dito tra le labbra, perché non si strozzasse con la lingua), schiumava rabbia, si graffiava le braccia, dopo riposava fermo, addirittura sognava e sapeva che era quello il significato (faceva viaggi tra questo e quel mondo). Un rumore forte lo scosse da quell’ultimo e unico ricordo in cui si sentiva di star amando, in cui si era trovato oltre la nevrosi.
Del resto erano sempre i rumori a distruggerlo. Il lobo frontale registrava subito l’esplosione, molto prima degli occhi. Si guardava tra le scarpe e c’erano il dito indice, medio e anulare, con lo smalto lucido e molto sangue (si vedeva qualcosa, erano ossa?). Era nauseato dai troppi stimoli, eppure sentiva singhiozzare marianna, poi la cornea contro ogni ordine ingrandiva sulla mano senza tre dita, e più in basso sul fumo che sbuffava dal cadavere di una penna. Voleva raccoglierla per scrivere un diario? Abel correva a perdifiato, quasi col vomito in gola. Quando arrivava le stringeva la mano nella mano come fosse un passero pigolante, sull’orlo della morte che prova a resistere, ma perde le piume e gli si chiude per sempre il becco e gli si sciolgono attorno le ali. Recuperava il filo da sarta dalle tasche, poi un ago e ci incastrava il filo bagnato all’estremità di saliva. «Stai ferma, ti prego» e tentava goffamente di riattaccarle quella poltiglia misto carne e polvere da sparo. Le toccava i capelli «non farlo mai più, d’accordo?» e osservava il risultato: le dita perdevano già colore, si annerivano. Marianna provava a parlare. Lui le chiudeva la bocca con la sua bocca e sapevano entrambi di due persone che non mangiano da giorni, di uno scopo molto più alto dell’umano, ma che solo da un umano può essere agito (se è di dio perché non ci pensa dio?). Così importante da essere ridicolo. Le baciava la mano orribile, le chiedeva scusa, ti avevo detto di stare attenta, di non raccogliere niente, le stringeva la vita piccola diciannovenne, sotto il vestito, voleva fare l’amore ma riusciva a ribadirle solo provo tanto affetto per te. Sono felice con te. Sei molto bella comunque.
Procedevano lungo le mura del cimitero. Marianna senza farsi sentire troppo gli indicava con la testa una senzatetto accasciata, vestita con molti strati, nonostante non facesse freddo. Il cimitero era il posto più simile alla terra come si sforzava di ricordarla: grandi palazzi di tumulazioni, i morti stretti in cellette e piccole croci e strutture così schematiche da poter essere solo brutaliste. E tanto silenzio, e niente disturbi. Abel si avvicinava alla donna, lasciava cadere nel bicchierino di plastica un rublo, facendole la carità. Lei col capo acconsentiva, ringraziava, e il ragazzo le toglieva la prima giacca di tre. Se la calava sulla schiena, trattenendo un urlo di dolore (il tessuto jeans gli lacerava l’ustione). La donna era una maria ragazza magra stanchissima che in russo gli sussurrava: «È grande la voce che chiama i pazzi. Siano beati i visionari sotto la croce di cristo, e le loro opere di carità». Abel si sporse con la fronte e lei gliela benedisse in sequenza ortodossa. «Vai ragazzo, noemi sta correndo dal Signore, le donne è da tutto ieri che sgranano i rosari. Gli uomini presto verranno raccolti». Sottobraccio teneva i manoscritti e un senso cupo come di chi presagisce qualcosa di troppo vero e troppo importante. Maria corse a sostenerlo. Una dolorosissima emicrania lo morse alle meningi, scendendo fino ai nervi dei denti. Si fermò perché la chiamata era troppo forte. Doveva dire, fare. Doveva essere quell’ordine. E nient’altro. Scrisse sull’asfalto consumato una profezia pensata molto tempo prima: sapeva dov’era la casa, doveva solo resistere fino a che non fosse arrivato lì (gli altoparlanti radio del cimitero annunciavano con tranquillità la seconda e imminente esplosione nucleare). Mentre alcune determinazioni non avevano niente di scientificamente concatenato, Abel rileggeva le parole e tremava. Mentre le lettere si incrociavano, sentiva di poter respirare senza la bocca e senza il naso.

La casa si trovava alla fine del mondo, al primo piano di un condominio con le tapparelle cadute, coi buchi della grandine. La porta non era chiusa, al posto del citofono c’era da inserire ancora il solito codice. Marianna lo prese per mano (con la sua mano orribile): udiva lo spettro della madre, udiva che le cose un tempo erano state scritte e ora erano illeggibili. L’atrio era buissimo e percorso da un soffio di vento. Alle pareti rimanevano gli aloni dei quadri. Non c’erano mobili. I bagni con i sanitari divelti. La madre sedeva sullo scheletro del mondo, in mano un rosario, in cirillico tatuato: «del padre, figlio e spirito santo». I due fratelli non dovevano avere paura. Abel si tolse la giacca, diventata ormai pesantissima, e la appoggiò sulle spalle della madre, che teneramente si voltò. «Quando torni…quando riparti, non vorrei mai». Marianna le diede un fiocco del vestito e una treccia di capelli. Così adornata, si irrigidì e scomparve. La cucina aveva la portafinestra spalancata. Lì nessuno aveva fatto razzia (le dispense piene di falene e cibo). L’aria si stava riscaldando. Il cielo era scuro per il temporale che sarebbe scoppiato di lì a pochissimo, ma rischiarava tutto ciò che aveva a portata di mano. I volti dei fratelli erano cerulei, così le loro espressioni, così combattevano ancora un poco, prima della fine vera della storia. Il verde delle piante riluceva, i lampi erano neon e per la prima volta dopo molto, Abel rivedeva i contorni, gli arredi, sapeva stella uno, due, luna tonda, sentiva il rumore pulito dell’aria senza detriti. Si rimpolpava nel corpo, mentre le orecchie si sbarazzavano della persecuzione del fischio. Piantava in una vasca quel seme che aveva trasportato in tasca durante tutta la vita. Si sedevano su sedie impolverate in plastica. Tra uno squarcio di luce e un rombo che faceva tremare il balcone, sentivano nitidamente le donne pregare, vedevano a tratti le file di uomini forti. La voce arrivò da dietro, da dentro la casa. Appoggiò una mano sulla spalla sinistra di abel, una mano su quella destra di marianna. E non disse nulla, non si mostrò in volto, solo respirava, e i fratelli sentivano il suo fiato sui colli, indovinavano che nota stesse intonando. Marianna fece vibrare piano le labbra chiuse, e presto si accordò alla monotonia della voce, e così Abel la imitò, aggiustandosi timidamente sulla stessa frequenza.

Restavano in una tensione viva, mentre tutt’attorno cresceva il coro. Da ogni angolo una voce uguale e armonica, e i contraccolpi ritmici che rispondevano al canto: una deflagrazione dopo l’altra di un oggetto dopo l’altro, nell’ultimo istante, prima che piovesse per giorni, e che i fogli dei tre dattiloscritti si sciogliessero facilmente con l’aiuto dell’acqua.

note a margine dell’apocalisse

di Francesca Mattiacci

quanti soldi devi fare in un anno?
quanto pagherai di tasse?
quanto costa una tua giornata?
che costi hai?
quanti giorni ha un anno?
160 giorni l’anno
€250 al giorno
I clienti che prendi per “fare cassa” ti rovineranno
le persone che lavorano con te sono l’unica cosa importante in agenzia
il fatturato non dipende dal tempo che ci mettiamo a lavorare ma dal pensiero
le persone con cui lavori sono degli adulti
prenditi le responsabilità giuste, non di più, non di meno
lavorare sul margine: EBITDA

fatti degli amici

***

perché ti alzi al mattino?
l’unica cosa importante sono i clienti
non lavorare per pochi soldi, lavora per un compenso giusto oppure gratis

la cosa più importante sono le relazioni

c’è l’acido lattico nel pesto Barilla
uomo con il giradischi in metro

***

[21:47:27] Lui: mi piace quando mangio la pasta con qualcosa tipo panna e salmone e riesco a calcolare benissimo il numero di pezzetti di salmone per ogni pezzo di pasta e arrivo alla fine che li ho calcolati perfettamente e riesco a mangiare la stessa quantità di salmone con pasta

[22:20:44] Lui: quando sono in macchina e piove e le gocce di pioggia scorrono sul vetro e io tifo per una goccia sperando che vinca la corsa

[23:26:28] Lui: non mi piace leccare la paletta di legno dei gelati

[23:27:55] Lui: non mi piace quando rimane appiccicata la colla delle etichette quando le togli

[23:29:55] Lui: quando d’inverno entro da qualche parte dopo essere stato fuori e mi si appannano gli occhiali

[23:31:43] Lui: quando ho i jeans strappati d’inverno e mi entra vento dentro che sembra che ti stia tagliando

[23:34:03] Lui: quando mi faccio la barba sciacquo la faccia e scopro di essermi tagliato

[23:41:11] Lui: l’odore della benzina

[23:41:43] Lui: quando mi strizzo forte gli occhi e inizio a vedere forme e colori

[23:44:43] Lui: mi piace trovare monetine nelle tasche dei pantaloni o delle giacche

[23:45:21] Lui: arrotolarmi nelle coperte

[23:45:54] Lui: strizzare la buccia del mandarino e annusare l’odore che viene fuori

[23:47:29] Lui: non mi piace quando guardo le cose belle e capisco che non riuscirò mai a riempirmene gli occhi

[23:51:42] Lui: se mi asciugo al sole dopo il mare e sento i granelli di sale sulla pelle

[23:55:04] Lui: quando finisco un libro e lo accosto agli altri nella libreria

[23:59:06] Lui: mi piace quando finisco un rullino

[28/10/20, 22:11:50] Lei: guardare e contare le stelle di plastica sul soffitto prima di addormentarmi. togliermi il reggiseno quando ritorno a casa. quando il mare diventa metallo fuso al tramonto

[28/10/20, 22:24:57] Lei: quando ti svegli tipo la domenica presto e pensi che non hai nessuna sveglia o cosa da fare e puoi ritornare a dormire in pace o quando ti svegli tipo alle 8 e hai la sveglia alle 8.30 e quella mezz’ora che ti resta da dormire è la cosa più bella del mondo

[28/10/20, 23:27:22] Lei: mi piace l’odore di umidità e muffa e l’odore dei libri vecchi

[28/10/20, 23:31:22] Lei: non mi piace chi fa le orecchiette alle pagine

[23:34:37] Lei: mi piace farmi la doccia bollente

[23:36:39] Lei: mi piace quando sto dormendo e sento che la gatta è saltata sul letto

[23:36:46] Lui: non mi piace quel secondo di freddo quando esci e vai per metterti l’accappatoio

[28/10/20, 23:40:21] Lei: mi piace l’odore del cloro

[28/10/20, 23:40:58] Lei: quando trattengo il fiato sott’acqua e ho la sensazione di non aver mai bisogno di prendere aria

[23:42:22] Lei: mi piace quando socchiudo gli occhi dopo il bagno al mare e attraverso le ciglia bagnate vedo gli arcobaleni

[23:42:55] Lei: mi piace il sapore della neve fresca le monetine sul fondo delle fontane

[23:44:08] Lei: l’odore di erba tagliata

[23:48:58] Lei: mi piace quando vinco al gioco del solitario e posso esprimere un desiderio

[23:49:14] Lei: quando trovo un ciglio sotto l’occhio e posso esprimere un desiderio

[23:49:28] Lei: quando vedo una stella cadente e posso esprimere un desiderio

[23:52:08] Lei: non mi piacciono le mani screpolate d’inverno

[23:53:38] Lei: non mi piace l’odore dei sedili nella macchina di papà

[23:55:22] Lei: mi piace giocare con gli orecchini quando sono agitata

[23:56:34] Lei: la sensazione della sabbia sotto i piedi la prima volta
che ti togli di nuovo le scarpe all’inizio dell’estate dopo un anno che non la provavi

[23:58:07] Lei: non mi piace quando dopo che hai mangiato lo zucchero filato
ti si appiccicano le dita

[00:03:07] Lei: mi piace il secondo prima di iniziare a dipingere sulla tela quando preparo la postazione e guardo lo spazio bianco e non so cosa farò

[00:03:38] Lei: il secondo prima di addormentarmi

[00:12:30] Lei: l’odore della lavanda

[00:12:49] Lei: del bucato appena fatto

[00:13:29] Lei: mi piace vedere in che direzione sono rivolti i piedi delle persone

***

[non c’è anima viva
anima
viva
non c’è un’anima viva]

c’è una croce illuminata in cima a una collina a Spoleto

esilarante e triste

dobbiamo scovare il nostro impulso

i gamberi vedono il triplo dei colori
le persone dei ghiacciai conoscono tanti tipi di bianco
grattacieli come una piramide azteca

quali moscerini siamo noi
cracker nel succo di pera

secondo te dovendo scegliere
un vegano andrebbe dal grossista o ucciderebbe la sua vittima?

vivere frame by frame è difficile
quando ero piccolo i miei mi mettevano nelle sabbie mobili

poi quando ero quasi sotto mi riportavano sopra
                                                                                      

***

ci sono vari spiriti:
spirito del vento
del gelo
della lava
dei torrenti
della roccia
della morte
della luce

alberi con gli occhi

perché siamo usciti? mi sento di morire
pomeriggio apocalisse

***

un uomo suona il violoncello sotto i loggiati mentre piove
non si sta esibendo è un’esercitazione privata

musica ascetica con cori gotici

affinché il salotto avesse successo la salottiera doveva avere tra i suoi ospiti un filosofo illustre che desse spunti per le discussioni che si svolgevano in un clima di libertà e di uguaglianza che rimaneva nei confini del salotto

visione temporanea di una funzione matematica

davanti ogni casa di riposo c’è un becchino

le anatre dove dormono la notte?

fumo di sigaretta tailorizzato adatto alla singola persona
forse se ci mettiamo in due spiagge che si fronteggiano possiamo comunicare
in tempi di estinzione

***

appunti per la psicologa: in che modo la vita ti ripaga?
un po’ di piccola gratitudine
uscire sempre dalla comfort zone?
tu lavori o studi, poi finisci e ti dirigi verso uno dei tanti dispensatori di liquido arancione
la giornata di giovedì sarà ancora peggio
stare sola a casa, l’ordine mentale
forse mi sento sola non lo so
ho dormito bene finalmente come se mi sentissi finalmente al sicuro/protetta
ho pianto la sera quando mamma mi teneva la mano e quando è partita
mi sentivo di nuovo sola

perché mi sento sola

vorrei conoscessi la mia psico, ti farebbe stare bene (dichiarazione d’amore)

la mia vita ridotta all’osso è
che ridere sta dicendo in maniera super dettagliata come se fosse un romanzo filosofico la trama di Stranger Things
il tipo qua dietro

***

post-datare la fattura
è passato un mese ormai, il primo pagamento ancora non me lo hanno fatturato
esaurita la prima parte del monte ore del progetto
apro la partita IVA o prendo meno clienti?
lavorare di più per dover pagare di più
dobbiamo convincere il cliente che noi siamo speciali

pagare affitto e bollette
4 anni. non cedolare secca

andare in palestra a leggere

***

 il misticismo come antidoto al fondamentalismo

coven
decadentismo
ecologia
ritorno alla natura
ri-sacralizzazione del mondo naturale e sociale
funghi/stamets

l’uomo è l’unico essere che sa di dover morire?

schermologia
meta pianeta
meta città
meta paese?
irrealtà sapientemente costruita

risparmiare vite umane

è successa una cosa strana. la magic 8 ball ha predetto il futuro            

o sono io che ho fatto le domande giuste?

sparare al piccione con il cannone

risveglia e attiva la ghiandola pineale
attivazione terzo occhio
arturiani alieni
interferenza radio o astrofortuna?
aphantasia
energia
atlantide
5d
testa
superstizioni
malocchio
decadenza
squallore
bunker
veloce attivazione del corpo di luce

stiamo per entrare in una multidimensional room. non perdetevi

il poeta (promter) sarà l’artista, l’architetto, il designer del futuro

***

decomposizione
lost in translation
farfalle elettriche
assorbenti medi
strisce baffetti

infopoesia ipocondria digitale tutte le volte che sono morta

l’utopia come qualcosa che non debba essere creato, ma rigenerato

lo scarabeo stercorario africano spinge la sua sfera di feci seguendo le vie tracciate dalla luce polarizzata della luna e dagli ammassi di stelle della via lattea

***

obiettivi per il futuro: imparare a investire
imparare una lingua
investire il tempo libero in cose che mi piacciono e hanno un ritorno 

non è vero
voglio andare a fare yoga lontano da qui

iscrizione a yoga selezionare un genere:

uomo
donna
AZIENDA

***

sono in metro, una signora cade svenuta
si solleva
controlla che sia la fermata giusta ed esce di corsa

transamoris_transmortis fragment62

di Silvia Tebaldi

Strano pensare a te ora, non c’è più tempo e le spiagge della luce vanno in polvere, si sfarinano in sabbia di onde e vuoto. Ora che il mare entra nella foce, l’abisso si fa cielo, che le acque salse risalgono i fiumi. Strano pensarti ora ed esser qui senza nome, forma, documenti o propositi e pensarti. Qui come un io che si credeva essere poi si scioglie, un cuore che non sa se non qualcosa, solo qualcosa di quel che è già accaduto e un’anima di cui non si sa nulla, che la macchina di pena del pensiero allaga come un basso o una cantina e poi si scioglie nel fuoco, qui dopo vite innumerevoli, dopo nomi cognomi identità pensieri, dopo opinioni proiezioni guru statistiche scenari, analisti economici e geotermici, i nostri privilegi suppuranti, gli habitus teoretici, il dirci due volte homo sapiens il praticare squash, mindfulness, zen, ostranenie idrocolture cinismi bizantinismi, essere corpi fuffi e scricchiolanti, corpi elettrici, archi perfetti nel clinamen, piallati arsi tatuati dal conatus, dal karma, dalla terza rivoluzione industriale, noi sputasentenze e succubi, senior manager of this mortal coil, intellettuali di stocazzo, esteti in nuce, vox clamantis voci emergenti lagne mammiferi verbigeranti – di tutto ciò che farne, ora, nulla.

Vanitas vanitatum tutto ciò a che giova, a nulla, a nulla ora che l’asse della terra cede, che collassano i giunti, il mozzo della ruota, il momento torcente, gli assi semiassi calettature incastri del linguaggio, le canne d’organo del logos, i corni d’ammone della dialettica, a che giova esser qui sotto gli astri impassibili, con i piedi affondati dentro il nero, nella sciara vulcanica, con gli occhi che già furono perle, con sulla lingua il gusto del metallo, di lamine d’oro sepolcrali, con acqua sopra cielo sotto ora, esser qui sotto il cielo, sotto il cielo di dio, esser qui nella fine nell’eclissi del sapiens, la specie che pose le altre specie in schiavitù. Non finirà la vita sulla terra, la nostra invece sì che finirà. A che giova menarla con coscienza, conoscenza, identità memoria ed individuo, cose che ora sprofondano ora tornano, che gemmano in licheni, onde merletti cinerari favolosa schiuma, che affondano riemergono si inabissano come il pesce di Giona, l’arca nel diluvio, la balena nel libro. Ora io sono io, bestia infestata dal linguaggio, fortezza senza porte sull’esterno, ora tutto si sfuoca e si fa oceano, sguardo-mare, agonia senza forma, estasi secca, vacuità spazzata dal meltemi. A che giova ripetere nomi o ricordare volti, prime edizioni e formule, detti dei padri e dei sapienti, i passaggi di soglia, le soglie del dolore, le scale pentatoniche, i nomi che la paura inventa per distrarsi: la vita sulla terra seguirà, ma non la nostra. La quantità della speranza è infinita, ma non per noi.

Noi che urlammo nel nascere, nel passare da lungo sonno a veglia breve, noi che in quel lungo sonno ritorniamo, noi che così di rado ci abbracciamo senza quel ronzio dentro, quel mormorio, scricchiolio lavorio brusio rovinio del pensiero, amnios delle passioni tristi, beccheggio della tolda.

Eppure noi davvero ci abbracciammo – non spesso, non sovente, prima il corpo e una musica dentro – come apprendemmo da bambini piccoli, sulle ginocchia delle nostre madri. In chiarità dopo le cose oscure, nell’ordo amoris prima delle parole.

E ora che sono al termine, sulla soglia del vuoto, sull’aprirsi dell’altra porta – sala senza pareti e senza porte, abisso senza linguaggio, vacuità – o forse dell’ade o giardino o inferno, l’aldilà di cui dissero i profeti, ora su questi scogli senza più io, corpo individuato, vecchia giacca gettata su una sedia, fardello di coscienza e metadati; ora che il mare batte sul pensiero e quell’acqua scura, acqua fossile da lenti sotterranee, acqua piena di scorie e di morfemi, piena di attanti e di residui plastici, di resti  uccisi dal capitalocene, dal cobalto, dal petroantropocene e dall’amianto, piena di salvati e di sommersi, quell’acqua nera si sperde e si mescola, sbocca fuori dal tempo, si dissolve in respiro, in acqua primordiale.

Ora è un qui senza opposti, senza più identità, senza più connotati e metadati, e ora è un io che si disse attivista, militante, agnostico o apocalittico o integrato; ora più nessun io a contare soldi, giornate-uomo e fasi e cromosomi, ora sabbia di ciottoli e di luce, polvere di conchiglie d’ossa e pietre, sembianza d’alghe, maestà dell’abisso e io ti penso.

Aspetto qui e ti penso, avevo mani e tu me le baciavi, avevi gli occhi e io non ti capivo, c’era un io c’era un tu e molte ferite, incastri e giri a vuoto del congegno. Gioia anteriore venne poi nel caos, nella resa, nel diventare mondo. Felice me nel diventare io, felice nel levarmelo di dosso; nella dissoluzione, nel noi che ci insorella, felici noi assieme e in solitudine, all alive at once then, noi gridandoci addosso nel Persempre.

Qui nel tempo che esonda, qui in hora mortis nostrae, nel giorno prima delle cose ultime, giorno senza Ormuz o Arimàn y en paz y amen, ora che è ora: un attimo sono una persona, sono memoria e rimemorazione, sono un io sedicente; l’istante dopo cade nella luce, è un cosmo dentro il cosmo ed è sostanza, indistinzione oceano sperdimento, fine delle parole astratte, pura sostanza puro suono, la radiazione cosmica di fondo. Vi fu un tempo in cui coltivammo scienze, tecnologie culture neuroscienze, automoto algoritmi meccatronica, pescicolture agricolture scritture letterature tutte le ture del mondo, tempi di immaginario e di simbolico, dell’ordine del discorso, di iniquità e di afflizioni scandite ex cathedra e di là, dentro il buio, di là il grido l’angoscia l’urlo nero. Ardimos en nuestra obra – fabuloso honor mortal, alto desafìo del fénix – nel tempo che fu impero ma ora è polvere, arsura e diossido di zolfo, è fiumi di lava e siccità, è agonia dei ghiacciai, degli ulivi, delle api, non più tura nessuna tura e nessuno ci salverà dal fuoco sordo, dal fuoco senza colore e presto sarò polvere, azoto e carbonio e cenere – ma prima l’agonia – davvero non è strano che io ti pensi.

Il buio come luce, il visto come il sognato, la roccia che si frantuma in erba e l’erba in polvere cosmica. Tracimano pozzi ed acque fossili, vastità di detriti e tutto esonda, tutto è in fiamme, tutto ritorna un’unica sostanza, e morte non avrà dominio: vita non morirà, solo la nostra.

Sotto il cielo di dio e della sua ira, pregando senza rivolgermi a nessuno. Aspetto e sto e ti penso, è strano ma ci siamo data vita, qualcosa come amore come abbracci, malintesi, biglietti scaduti, nenie prima del sonno e cibo e nomi. Quanto strano è pensarti e stare qui, blest be our failure, assieme a te  nei vuoti tra i pensieri, nei vasti spazi interstellari, qui transamoris transmortis causa assieme a te, tra la sabbia ferro di miniere, giglio che non c’è chi lo veda fiorire, non importa chi tu sia qui dove tutto è assieme, genti animali idee pensieri erbe, acque scritture boschi, campo dell’immanenza – ma prima nell’agonia, in questo ospedale dei dannati, verso la foce delle cose ultime. Qui nell’orbita del Grande Attrattore, nel metallo atmosferico ossidato, a ripetere nomi, perché in certe ore è così necessario dire: «Amai questo»? Un passero che fu di Lesbia, certi blues, caverne pavimentate di linoleum? Tutto esonda, tutto è in fiamme, una sola sostanza nell’estinzione, foce del tempo, morte che è madre dell’universo eppure resta questa cosa piccola, esserci voluto bene, un’aiuola sull’argine un recinto, l’immanenza fugace e le tue scapole, il mio sterno perimetro di sabbia. Gone beyond joy, una sola sostanza una figura, gioia che eccede ogni comprensione, forma che è quella dell’amore stesso, caw caw caw crows in the white sun, blessed blessed blessed caw caw caw, tutto viene alla luce.


Immagine di copertina e illustrazioni a cura di Kamil Krupczak, del collettivo DISERTARE!


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