Senza scheletro: il crowdfunding di lay0ut magazine

Lay0ut sta cambiando forma, un’altra volta, e non per diventare una bellissima farfalla ma per farsi corpo molle, rete di slime. Se c’è una cosa che abbiamo capito in questo ultimo anno, però, è che non possiamo farlo da sol*, perché le transizioni costano.

Per questi motivi tramite produzionidalbasso, che 💙potete scoprire a questo link 💙 abbiamo deciso di lanciare il nostro crowdfunding. Durante questi due mesi di raccolta vi racconteremo cosa lay0ut è, cosa diventerà e cosa ha in mente di fare, cercando di rievocare insieme i momenti più belli di questa breve e intensissima avventura.

L’editoriale che segue, firmato da Dimitri Milleri e Beatrice Sartori, introduce il tema-archetipo da cui stiamo prendendo le mosse, il concetto di Senza scheletro: un modo per svestirsi e fare mea culpa, un modo per innamorarsi e per chiedere aiuto. Un modo per illumacarsi. Buona lettura!

Abbiamo deciso di lanciare il nostro crowdfunding e ci serve il sostegno di tutt*, perché senza soldi lay0ut smetterà di esistere online, su carta e come comunità.

lay0ut dopo sono hackerat*

Dopo l’ultimo anno di Lay0ut l’operazione sono hackerat* può dirsi definitivamente conclusa. Siamo entrat* nei meandri dei codici, nelle smagliature dell’immagine, nell’errore 404. Operazione conclusa con successo: un compatto numero cartaceo alla mano, più di 15 presentazioni, una mostra, un party neolatino, un’auto-festival e un festival come si deve. Da Cucullaro a Bibbiena con furore. Poi ancora un gruppo di lettura, una nuova rubrica queer, open mic ed eventi (siamo bravissime).

Adesso, amic* mie*, Lay0ut arriva alle porte del suo terzo numero cartaceo con un tema ben preciso fra le mani (o quasi), come sempre (?). “Senza scheletro” è nato proprio durante quelle giornate folli, dalle chiacchiere attorno al fuoco, dai nostri circuiti emotivi sovrastimolati, dall’esigenza di ridefinirci, perché se “layout si prende cura di te” allora dovevamo prenderci cura di noi.

È ormai noto che i titoli di Layout nascano solo in circostanze impreviste, dal tramestio degli eventi, o da una probabile psicosi collettiva, e diventano impossibili da ignorare.

Senza Scheletro, in particolare, nasce al festival “Scritture vive” di Bibbiena, durante la lettura accompagnata dalle improvvisazioni musicali di Zorah, che, a un certo punto, ha isolato due sintagmi: “senza” e “scheletro”, facendoli tintinnare a ripetizione dentro il sound system, come due fantasmi👻 autotunati dispersi nel teatro che ci ospitava.

A quel punto, ci è sembrato troppo evidente che l’unione di questi due spettri ci riguardasse da vicino, e che questa esperienza tecnospettrale sarebbe stata la chiave di accesso al futuro anno editoriale. Ma partiamo con un affondo nella cultura vernacolare padana.

Nostra sorella limassa

Inesorabilmente diventando tutte limasse

Nel dialetto veneto, esistono due modi di chiamare le lumache: ci sono i limassi e i bogoni 🐌. Entrambi strisciano sul proprio ventre lasciando dietro di sé una scia lucida di bava. Mentre i bogoni lo fanno protetti da una conchiglia abbastanza grande da essere casa, però, i limassi sono corpi sfollati completamente molli, rugosi, lubrificati e ridicolmente esposti a tutto ciò che li circonda.

Proprio all’inizio di quest’anno editoriale, io ed Eva Brami camminavamo a nella campagna parmense per fare ricerca su un festival di arte pubblica. Appena raggiunta l’acqua del torrente in secca, sulla sponda fangosa ci avviciniamo ad un limacide (termine non veneto per limasso) mentre mangiucchiava placidamente con la sua bocca a ventosa un gruppo di funghi. Le antenne, i movimenti lenti, il corpo rugoso e spalmabile.

Riguardo quella foto e penso: i limacidi non sono altro che molluschi, soggettività invertebrate e flessibili. A noi invece, esseri umani vertebrati, in un mondo-immondo saturo di superfluo, di burnout e di violenza sistemica, viene imposto uno scheletro. Infatti impariamo che bisogna avere abbastanza spina dorsale da non lamentarsi delle condizioni di lavoro, da aderire al ruolo imposto dalla nostra socializzazione, da reprimere ogni desiderio divergente, ogni dubbio, ogni dissenso. Imparare ad essere funzionali, brav* consumator*, a privatizzare ogni forma di cura.

Essere fragili però è l’unica condizione che non possiamo dichiarare. Eh no, altrimenti saremmo dell* rammollit*, proprio come i corpi molli, nudi, lubrificati ed esposti dei limacidi, che diventano automaticamente simbolo di debolezza.

Deboli, amorose & problematiche

Ebbene è arrivato il momento di rivendicare il nostro corpo malleabile, pervertito, sudato e invertebrato, provare a svestirsi dell’infrastruttura scheletrica a cui siamo avvinghiat* e che ci intrappola in schematismi ossei rigidi.

Paul B. Preciado spiega questa trappola usando il termine disforia del mondo. Disforia ibrida il prefisso greco dys-, che separa, nega o denota difficoltà, e il verbo phérein, “trasportare”, “sostenere”, “trasferire”. È lo stesso verbo che si trova nella parola metafora. Ma mentre la metafora trasporta qualcosa (il senso, il significato, un’immagine) da un luogo a un altro, la disforia fa cilecca: trasporta male.

Per Preciado, la disforia suggerisce l’idea di un problema di carico, un difetto di tenuta, un’impossibilità a sostenere il peso. Se le nostre vertebre sono l’ossificazione delle infrastrutture socio-culturali in cui siamo venut* al mondo allora è evidente che non ne sosteniamo più il peso. 

La disforia di cui parla Preciado, in ogni caso, è il senso pervasivo di scollamento, disagio espressivo, consenso obbligato e dissenso irrisolto. Non è individuale, non è patologizzante, ma è una condizione planetaria, è la forma di doloroso assoggettamento ad ogni sistema normativo di potere.

Illustrazione di Joy Pepe

Ci fonderemo che tanto siamo soluzione e problema

Come ricorda spesso Judith Butler, non dobbiamo fare l’errore di sentirci al di fuori di questi sistemi, perché siamo parte del problema che vogliamo risolvere, implicat* nelle relazioni di potere alle quali ci opponiamo. E questo non è profondamente disforico? Si potrebbe dire che siamo le crepe nei ghiacci polari, l’Amazzonia deforestata, l* finanziator* della Big Tech, bandiere al vento e simboli dei privilegi di cui godiamo.

È un po’ come se Scooby-Doo, alzando la maschera del cattivo, trovasse una versione di sé stesso con i colori in negativo, costretto a chiedersi per sempre chi dei due sia “vero”. Essere senza scheletro è esposizione etica, la rinuncia alle armi, il rischio di visibilità, il coraggio dell’autodenuncia. Il coraggio di mettere avanti il corpo, come campo d’azione esposto, non costantemente performato ma aperto a costruire esperienze collettive che sperimentino prassi di cura.

Immaginiamo di essere un corpo molle, illimitato e che può mutare la propria forma, attivarsi, accogliere la molteplicità di disforie e permettergli di coesistere. Essere senza scheletro significa affidarsi al collettivo, avere la fiducia che l’abbandono dello scheletro –ovvero l’automutilazione– sia l’unico modo per iniziare a ridistribuire un peso, immaginando un’infrastruttura completamente nuova, negoziata, empatica, comune.

Il nostro corpo vivo e desiderante è la sola tecnologia in grado di operare il cambiamento. Il corpo è la nostra interfaccia con la disforia del mondo, il campo di battaglia dove testare esperienze collettive di cura, di agency, di politiche informali, di tutto.

Espandibili

Senza scheletro è trasformare i nostri personali processi di soggettivazione politica, i nostri metodi di produzione, di consumo, di riproduzione, di relazione, i nostri modi di rappresentare, di desiderare, di amare. E dunque cosa sarà questo cartaceo? Ancora non lo sappiamo, ma siamo pront* al disarmo totale, a rivendicare la nostra invertebrata, disgustosa, kinky, sotto-standard, viscida mollezza. I nostri recinti epidermici sono infinitamente espandibili.

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Copertina a cura di Eva Brami