Trilogia del nido – tre racconti inediti di Giorgia Melillo | Opera morta

L’opera morta è la parte emersa di uno scafo. È lo spazio che occupiamo su una nave, mentre sotto di noi l’opera viva, i motori, le eliche si affaticano e ci trasportano senza farsi notare. La parte vivente della nave si muove a noi indifferente, come noi lo siamo a lei, dimentichi di essere ospiti, niente più di un carico. A meno che tempeste, rocce, iceberg non intervengano a ricordarcelo.
È nell’indagine sul rapporto del reale con tutto ciò che è occultato sotto e intorno a noi, con ciò che si intravede nelle fratture che crepano la parte visibile del mondo – il rapporto, il conflitto, tra opera viva e opera morta –, che risiede il senso profondo di questa rubrica di racconti inediti. Per questo intendiamo superare etichette, distinzioni e concetti di genere, accogliendo tutte le possibilità che il racconto offre: dalla narrazione realistica al fantastico e al weird, dal racconto impegnato a quello intimistico, dalla microfiction alle commistioni con la saggistica.
I fari che guideranno la nostra ricerca sono la letterarietà e la sperimentazione. Con letterarietà intendiamo l’uso consapevole e coraggioso della lingua e la ricerca di una propria voce di scrittor* (che può essere urlata, sussurrata, persino negata). E poi la sperimentazione: propendiamo per autor* che osano, che offrono punti di vista inediti, disturbanti, profetici.
La quarta uscita di Opera morta è Trilogia del nido di Giorgia Melillo: un trittico di racconti brevi che sono tasselli – ognuno con una sua dimensione, una sua prospettiva – di una stessa storia. Gli altri racconti sono L’ultimo Gaijin di Cesare Sinatti, Breve storia delle voragini di Mauro Tetti e Papaveri di Francesca Mattei.

A cura di Claudio Bello e Daria De Pascale


Ventinove anni

Dalla porta aperta entra la luce dell’anticamera, la lampadina è quella dei cinesi che finché non si riscalda fa sembrare tutto un cimitero. Vedo il mio coinquilino che si aggira per la casa con in mano un aspirabriciole che accende a intermittenza come se stesse componendo un beat. Sul balcone deve esserci ancora l’uccello morto che ho trovato stamattina, è planato di schianto sulle mie persiane chiuse, ho sentito appena il rumore sopra la musica e la serie che stavo guardando. La psicologa che mia madre mi aveva affibbiato alle medie mi redarguiva quando tentavo di fare più cose insieme, perché secondo lei questo stimolava la mia disattenzione, io invece penso che mi concentro di più. La serie che sto guardando parla di un condominio in cui sono tutti cortesi e generosi, si regalano la pasta avanzata, l’olio quando lo prendono dai paesi, si salutano sbracciandosi anche se si tratta di uno affacciato al balcone dell’ottavo piano e uno che sta uscendo dal portone, solo che tipo alla seconda puntata, dopo che per tutta la prima hai pensato ma che cazzo mi frega dei condomini che si salutano, cominciano a salutarsi a voce sempre più alta, e a sbracciarsi tanto e a regalarsi così tanto olio a vicenda che a un certo punto si prendono a pugni e parolacce e bestemmie, spaccano l’olio sulle pareti delle case dei vicini, spalmano tutte le pareti di merda di neonato, e dove sono arrivato io, che mi sono visto sei puntate oggi, non si è ancora capito perché. Non ho mai acceso la luce in camera perché stavo al computer, però mi sono scordato di pisciare per ore, forse perché ho bevuto poco. Non sono andato a spostare l’uccello perché voglio vedere cosa succede quando se ne accorge il mio coinquilino maniaco dei germi, chissà se tenta di aspirarlo con l’aspirabriciole, come quella volta che ci ha provato con un bicchiere di plastica lasciato per terra da una tipa che si è scopato. L’ho guardato cercare di aspirare il bicchiere per ore dallo spiraglio della porta, cercare di schiacciarlo per farlo passare dal buco dell’aspirabriciole, poi farlo a pezzi minuscoli intaccandone il bordo con le unghie, poi capire che forse avrebbe dovuto usare delle forbici. Penso che devo cambiare casa, sceglierne una di quelle con dei vecchi che ti danno da mangiare, ti fanno la lavatrice, la domenica ti fanno sedere con loro sul divano del salotto: mi piacerebbe così, sarebbe come dai miei nonni quando ero scappato di casa a sedici anni perché mia madre chattava su MSN con uno col cazzo come una patatina del McDonald’s.
Mi ricordo che devo andare a vendere un paio di scarpe che non metto più a uno beccato su Facebook, solo che spinto dall’ottimismo gli ho dato appuntamento a Flaminio, e non mi va di prendere il tram perché mi voglio vedere le altre dieci puntate dei condomini stronzi. Mi sento la bocca secca come se avessi la lingua su un pezzo di piumone, quindi capisco di aver esagerato, non so esattamente che ore sono e se sono in ritardo col tipo, non guardo il cellulare da almeno quattro ore, mi sento la testa che non sta tanto incastrata al suo posto.
Esco senza salutare il mio coinquilino che sta lucidando i cucchiai che abbiamo comprato da Casalandia, fuori è buio, non mi ero accorto di aver speso la mia giornata così, forse lo rimpiangerò tutto ’sto tempo in camera mia quando le forze verranno meno e morirò?
Mi siedo di fronte a una signora dell’Est Europa col naso lucido come se ci avesse passato l’olio, una ragazzina con una maglia con scritto Boy, e una zingara coi capelli legati in due trecce che finiscono in fazzoletti colorati. Di solito non fisso nessuno sui mezzi perché non voglio che la gente mi parli tipo del fatto che l’Atac funziona di merda, solo che la zingara non assomiglia a tutte le altre che sono abituato a vedere, che dormono a Quintiliani nel campo dietro l’ingresso della metro, frugano con l’uncino nei bidoni dell’immondizia, cantano Laura Pausini con la cassa e il microfono tra i vagoni, quelle lì hanno il viso sempre serio, anche quando ridono, e incazzato, forse incattivito pure dalla vita sacrificata che fanno eh, non lo so. Invece questa qui, che avrà, che ne so, quarantacinque anni, con la sua gonna viola e le ciabatte con calzino, c’ha una pelle di un bel colore nocciola, la mascella più dolce, e sta piangendo da prima che salissi in tram secondo me, perché ha tutti gli occhi rossi, piange senza asciugarsi le lacrime, ma ha la mano a pugno davanti alla bocca, piange tutte le lacrime che può piangere un umano prima di finire l’acqua e io, che non ho mai visto una zingara piangere e quindi mi domando cosa possa farla sentire così male da mordersi le dita sul tram che porta a piazzale Flaminio, mi ritrovo che sto quasi piangendo pure io, e ora io e questa qui con le trecce impregnate di schifo e sebo stiamo vivendo lo stesso dolore, però lei non mi guarda, ha gli occhi lontani, sono bellissimi, mi fanno pensare a quando spengo la luce e il mio coinquilino va a dormire tutto avvolto in un telo cerato asettico.

Solo uno specchio per gli uccelli migratori

La decisione di svegliarmi tutte le mattine all’alba l’avevo presa che facevo il liceo e abitavo in un caseggiato di mattoni rossi, circondato quasi completamente da ortensie lilla enormi, così grandi che qualche volta non riuscivo a vedere oltre il muro di recinzione. Dal mio balcone minuscolo, dove avevo imparato a fumare e a guardare la signora del terzo piano che si massaggiava il seno con l’olio di mandorle, vedevo uno scorcio della stazione dei treni in costruzione, ero sicuro che sarebbe stata un’opera enorme, perché non appena aveva cominciato a prender forma avevo visto miriadi di uccelli volarci sopra, fermarvisi per raccogliere il resto dello stormo, possibilmente far mente locale e poi dare la comunicazione con quel particolare linguaggio degli uccelli che mi ero sempre immaginato abbastanza liquido, fatto di un sacco di L.
Avevo deciso che non valeva la pena di passare tutta la notte in contemplazione della chitarra che non avevo mai imparato a suonare, del Don Chisciotte in due volumi di mio padre – ti prego Giacomo leggilo tutto e fatti una cultura coi classici – che non avevo mai letto, dei Topolino che mia madre aveva comprato per abitudine e perché pensava che fossi un collezionista serio, e che invece manco quelli mi veniva voglia di leggere.
Mi ero convinto, e non senza grossi ripensamenti, malumori, sofferenze più o meno mal tollerate, che sarebbe stato il caso di svegliarsi molto presto al mattino, per vedere l’alba e tutto il resto, per osservare gli uccelli che chissà se erano gli stessi dell’anno prima, ma soprattutto perché la notte portava con sé quella dose di tristezza da doveri non adempiuti che tanto valeva abituarsi a una vita di sensi di colpa.
Non è che avessi ottenuto risultati considerevoli, durante gli anni del liceo, però avevo visto la stazione svettare sempre più alta tra le ortensie, diventare un monolite con un sacco di spigoli, completamente riflettente, e mi ero domandato cosa avrebbero fatto gli stormi di uccelli, se ci si sarebbero scontrati, confusi dai raggi del sole di novembre, o se avrebbero riconosciuto la propria immagine, invecchiata di anno in anno. Poi mi ero sentito stupido, a pormi questi interrogativi fantasiosi invece di studiare geopolitica per capirci qualcosa quando se ne parlava alle cene di Natale, poi avevo pensato ancora a quella specie di adesivi che ritraggono rondini stilizzate attaccati ai pannelli in plexiglas lungo le ferrovie, come avvertimento per gli uccelli che hanno voglia di volare basso.
Avevo immaginato degli adesivi analoghi, ma immensi, per la facciata della stazione.
Qualche anno dopo, avevo cambiato casa ed ero riuscito a trovarne una che dava direttamente sulla stazione, permettendomi di guardarla da varie angolazioni. Abitavo da solo, e avevo regalato la chitarra a un mio amico che poi era diventato ricco suonando per strada, venduto i Topolino al mercatino dell’usato in cui avevo conosciuto un uomo che concludeva ogni pasto con una Big Babol e che per questo ne collezionava gli incarti, ma avevo tenuto il Don Chisciotte perché avrebbe fatto un po’ di scena sul comodino, se solo mi fossi ricordato di non coprirlo con cianfrusaglie: fazzoletti usati, volantini delle pizzerie, torsoli di mela.
La questione Raniero era venuta fuori diversi giorni dopo il mio trasferimento, quando avevo preso a calci il televisore che non funzionava ed ero andato a letto senza mangiare, col risultato di anticipare il mio risveglio alle quattro e mezza circa. Era ancora buio, non si sarebbero visti nemmeno i pappagallini verdi che avevano invaso la città, con quell’illuminazione scarsa. Dal piano di sotto avevo sentito dei colpi regolari e fortissimi, come se qualcuno stesse cercando di fare un buco per ricavare un po’ di spazio tra il soggiorno e la sala da pranzo. Doveva essere il signore dell’interno 21, sotto al mio, che mi redarguiva per i miei presunti rumori molesti. Ero tornato a letto coi sensi di colpa dell’adolescenza, cercando di camminare con il bordo esterno dei piedi. Per la prima volta dopo sei anni avevo dormito fino alle undici del mattino, poi ero andato a chiedere notizie a Ester, la portiera affabile come un caimano digiuno. Aveva solo saputo dirmi che quel tizio si chiamava Raniero (ma molti altri inquilini, negli anni a venire, lo chiamarono Pamelo e Danielo) e che si faceva il riporto ai capelli.
Ricordo che avevo trascorso il primo periodo a tormentarmi nel letto mentre Raniero bussava dal piano di sotto con qualcosa che doveva assomigliare a un ariete da sfondamento, o al tronco di un acero bicentenario, chiedendomi se non fosse il caso di comprare un trapano da asfalto e semplicemente piombargli in salotto, oppure preparare delle torte dall’aspetto meraviglioso e poi riempirle di lassativo così da incastrarlo sulla tazza.
Per via delle abitudini maturate nel corso degli anni, avevo continuato per un pezzo a svegliarmi presto, spontaneamente, e a sbirciare l’alba che sorgeva oltre lo specchio della grande stazione, stando attento, però, a non mettere i piedi fuori dal letto prima di un certo orario che chiunque, ma soprattutto Raniero, avrebbe potuto considerare adatto.
Una notte, che avevo passato in preda ai deliri della febbre, perché ero stato sorpreso da un temporale mentre camminavo beato costeggiando un cimitero monumentale, avevo sognato il vicino dell’interno 21 che si arrampicava sul muro, e poi sul soffitto, e che camminava avanti e indietro con scarpe altissime, col tacco spesso. Un’altra ancora, mentre facevo l’amore con una ragazza con gli occhiali, mi era parso che Raniero stesse dissodando con un trattore il pavimento del suo salotto che mi ero sempre immaginato pieno di animali impagliati. La ragazza con gli occhiali se ne era andata via molto traumatizzata, mentre io guardavo gli uccelli dalla mia finestra, ancora steso sul letto, e il vicino dell’interno 21 decideva di tirare al piattello nel corridoio di casa sua. Pensavo al tempo in cui tutto era silenzioso, e perfetto, come la stazione dei treni altissima nel cielo, grande specchio per gli uccelli migratori confusi, e a quello che una volta mi aveva detto l’otorino, dopo avermi fatto un esame audiometrico piuttosto fallimentare: «Lei ha semplicemente un acufene, un tinnito, vale a dire un suono acuto otogeno, autogenerato dall’orecchio. Si immagini questo: un organo deputato all’ascolto dei suoni che ne genera uno o più, spontaneamente. È un paradosso». Per molti mesi ero rimasto convinto che Raniero fosse solo il tinnito del mio cervello impazzito, il frutto bacato della mia immaginazione, che le sue sollecitazioni sonore ogniqualvolta io mi muovevo per la casa a un orario che lui giudicava inadeguato fossero un suono autogenerato dal mio orecchio al solo scopo di condurmi alla pazzia. Avevo passato molto tempo steso a letto, immerso in un torpore senza inizio e fine, dimentico delle mie sveglie presto, dell’alba, della vita in generale, e ridestato a intervalli regolari dai colpi di Raniero contro il soffitto. Mi alzavo solo per smangiucchiare qualcosa e andare in bagno, prendere aria sul balcone per vedere le stagioni avvicendarsi e per distribuire qualche briciola di pane agli uccelli che passavano da quelle parti. Quando avevo smesso di rispondere al telefono mia madre aveva fatto irruzione in casa mia e, accortasi che avevo costruito una specie di punto di ristoro per gli uccelli che migravano sul mio balcone – col risultato che ormai assomigliava più che altro a un letamaio –, aveva scritto una lettera a Raniero chiedendogli un incontro formale. Raniero non aveva risposto mai.
Quasi cinque anni dopo, quando ormai avevo cominciato a ignorare Raniero, e mi ero comprato dei bonghi, avevo smesso improvvisamente di sentire rumori provenienti dall’interno 21. Il silenzio era andato avanti per giorni. Dopo circa una settimana, avevo saputo da Ester che il signor Raniero dell’interno 21 si era andato a schiantare dritto dritto contro uno dei pannelli della stazione dei treni, uno di quelli riflettenti, che impedivano di guardare dentro e vedere gli impiegati al lavoro. Mi ero sorpreso a sospirare con una lacrima che insisteva dietro la palpebra destra, mi ero sorpreso a ripensare agli enormi adesivi a forma di uccello che un giorno, anni prima, avrei voluto creare per gli stormi che migravano. Mi ero sorpreso a chiedermi se il signor Raniero nella superficie riflettente ci avesse visto lo stesso signore dell’interno 21 che vedeva l’anno prima, e se non fosse stato quello il motivo del suo schianto.

I mangiatori di patate

«Oggi ho visto un piccione che inciampava». Lo dice distrattamente, rivolgendosi più al tinello che a lui. La cucina sta piombando in quel blu da assenza di luce elettrica e la pentola di acqua messa a bollire si produce in strane scintille. Lei ci fa scivolare dentro due patate, e l’acqua per poco non straborda.
«Eh?» urla lui dall’altra stanza. Non si era accorta che se ne fosse andato, con queste nuove pantofole comprate al discount lui si muove per la casa di soppiatto come se non avesse peso. Rimane in silenzio dopo essersi seduta sulla sedia un po’ sbilenca della cucina, quella che ha montato lei, col risultato di spanare una vite.
«Ma stai parlando al telefono?» insiste lui, questa volta più vicino e a voce meno alta.
«NO!» esplode lei, già stufa.
«E allora che hai detto?» La silhouette di lui compare nel vano della porta che separa la cucina dal corridoio e, per un curioso gioco di luce fievole che entra dalla finestra, lei può vederne solo le mani, il resto è in ombra. Lui ha sempre avuto le mani di una persona coi capelli biondi o rossi, pallide e vagamente viscide come un qualche animale anfibio, e con le falangette strette, le unghie piccole e stondate. Lei lo guarda voltando appena la testa sopra la spalla, fa correre gli occhi lungo tutta la figura di lui – uno spettro –, proprio non riesce a fare a meno di aggrottare la fronte per via di quelle mani. Si pente di aver raccontato ad alta voce la storia del piccione, ma si sente ripeterla, come un’estranea.
«Stamattina sono passata da quella via, quella della scuola, e ho visto ’sto piccione». Si alza per mettere il coperchio alle patate, e vede che l’acqua bolle ancora, ed è evaporata quasi per metà. Le patate giacciono sul fondo della pentola agitate dal bollore. Ci aggiunge un bicchiere d’acqua perché vi siano ben immerse. Sente lui che borbotta.
«Come?» gli chiede.
«No, dico, ora che aggiungi l’acqua fredda, boh…» Avanza fino alla cucina e accende la luce della cappa. «Cioè, si faranno una merda». Spegne la luce, come se non volesse guardare oltre.
Lei aggrotta ancora la fronte e contrae le labbra. «Perché?» chiede stizzita.
«Ma sì, lo shock termico» risponde lui vago, andando verso il frigorifero. La luce fredda lo illumina, deflagrando nella cucina ormai buia.
Lei sbuffa forte e si avvicina alla credenza, giusto per fare qualcosa e mettere distanza tra loro.
«E poi, scusa, perché dovresti fare la strada della scuola?» le domanda, con una voce così nasale da diventare petulante.
«Cioè?» chiede lei, distratta, guardando il cellulare.
«Non devi passare di là per andare al lavoro, allunghi un sacco». Questa volta è lui a mettersi sulla sedia sbilenca con in mano il cartone di succo al mango, nuova ossessione. Gli piacciono tutte le bevande zuccherate, anni fa questa caratteristica le faceva tenerezza.
«Non ti stavo raccontando quello comunque» risponde lei, confusa: non aveva davvero badato a ciò che diceva, così occupata a infarcire la storia del piccione di particolari realistici per giustificare la sua esigenza di raccontargliela. È stata scema, come le è venuto in mente di parlare proprio a lui del piccione?
«Ti stavo dicendo un’altra cosa» continua lei, svagando un po’, prendendo uno alla volta dal mobile bianco accanto al piccolo divano tutti quegli oggetti senza collocazione: un portafortuna comprato al capodanno cinese, un pettine a denti fitti da borsetta, una penna per tablet che si è rotta due mesi fa perché lui l’ha schiacciata sotto i piedi, una tazzina con il manico spezzato che va riparato, ma la colla si è seccata e nessuno ha pensato di ricomprarla. Se li rigira tra le mani e poi li mette in posizioni diverse, così che le sembrino un po’ più ordinati. «Ti stavo dicendo che ho fatto caso a questa cosa e poi ci ho pensato tutto il giorno».
«A cosa?» chiede lui mangiando un pistacchio preso chissà dove. Lei scuote appena la testa, e nemmeno si volta a guardare la scena perché perderebbe davvero la pazienza. Nonostante tutti gli apparecchi che lui ha portato fino a qualche anno fa, continua ad avere trentaquattro denti in quella bocca sempre imbronciata; denti ovunque, che premono per uscirgli dalle gengive, una doppia coppia di canini letali, implacabili: quando mangia sembra che i suoi denti occupino troppo spazio per permettergli di masticare il cibo a bocca chiusa. Cazzo, un pistacchio è minuscolo – pensa lei –, perché devi fare come se stessi masticando un gigantesco quadrato di gommapiuma, o un nervo di carne troppo duro?
«Niente» dice alla fine lei scoraggiata, tornando dalle patate, non posando mai gli occhi su di lui.
«Senti, accendi ’sta luce» dice lui, «che siamo, I mangiatori di patate?» Si ferma un attimo, poi sbotta a ridere, pensando di aver detto qualcosa di molto sagace. Lei non ride, accende la luce, ma dopo qualche sfarfallio e uno scoppio sorprendentemente forte la lampadina si spegne del tutto, e la cucina ripiomba in un buio totale.
La luce della lampadina è stata come un lampo, li ha sorpresi per un attimo in tutta la loro prostrazione da fine giornata: lei ha i capelli sporchi, ma dissimula con una coda un po’ acciuffata, ed è ancora truccata come la mattina, quando è uscita di casa. Ha il mascara sbavato perché a un certo punto del pomeriggio si è dimenticata di essere truccata e si è passata una mano sugli occhi. Ha il naso rosso per l’allergia. Non si è mai sentita più vicina alla tristezza.
Lui è vago, vaghi gli occhi vicini, il naso appuntito, i capelli slavati. Sembra stanco ma anche piuttosto sereno, come se si trovasse proprio nel posto in cui avrebbe voluto essere.
Ora che il sole è calato del tutto e a illuminarli c’è solo il fornello acceso, lei può guardarlo di nuovo, perché è impossibile distinguerne i denti e il modo in cui stanno triturando un crostino di pane.
«Comunque, stavo facendo una cosa di là» dice lui strascicato, «perché mi hai fatto venire se poi non mi devi dire niente?»
Lei fa una specie di scatto col collo, come ritraendosi al suono di quella frase. «Non ti ho detto di venire qua».
«Dicevi cose che non capivo, poi hai parlato dei piccioni, ma che c’entra? Hanno rifatto il nido?» Lui ora la sta guardando, per la prima volta, anche se con gli occhi strizzati per distinguerla.
Lei però intanto sta cercando una lampadina in quei cestini di vimini sopra la credenza in cui ficca tutti i ricambi, ma non c’è.
«Mi ero scordata dei nidi» dice piano, bloccandosi con un braccio ancora teso in alto a frugare, «quando è stato?»
«Cinque anni fa, tipo. Facevo ancora il master». Ha un tono discorsivo adesso, e lei non capisce come sia potuto succedere, visto che pensava sarebbe presto scoppiata una discussione.
«Scusa, mi dai una mano con la lampadina?» chiede lei infastidita e per un pelo non perde l’equilibrio.
«Non ci stanno là, abbiamo cambiato l’ultima e non ne abbiamo ricomprate» dice lui, rivolto alle patate.
Lei si gira, quasi strilla: «Non me lo potevi dire visto che le sto cercando?»
«Non pensavo cercassi quello». Lui alza le spalle. «Senti, io vado a finire di allenarmi, chiamami quando sono fatte le patate».
«E la luce?»
Lui alza le spalle mentre si sta già incamminando, e quando le passa accanto lei sente l’odore un po’ dolce – un po’ acre – del suo sudore. «Domani compriamo la lampadina».
«E mo mangiamo al buio?» insiste lei.
«Madonna che rottura di coglioni stasera, oh» sbotta lui.
Lei sente un guizzo molto veloce di compiacimento, subito seguito dal torpore per la fatica di dover affrontare una discussione a quell’ora, in una cucina buia, con la prospettiva di mangiare una patata con due pomodori e un po’ di tonno.
«Scusa, non fai mai un cazzo se succede qualcosa» risponde lei a caso, ma sicura di farlo arrabbiare.
«Ma che vuol dire?»
«Semplicemente passi oltre!» Lei si va a sedere, poi si ricorda delle patate: sul bordo della pentola si è formata una specie di aureola marroncina, le patate mostrano grossi solchi, ma dentro sembrano ancora crude. Esitando, incerta sul da farsi, le taglia a metà. Sente che lui la sta osservando in silenzio, poi ridacchia sbuffando, dal nulla.
«Cazzo ridi?» gli dice voltandosi, il viso un po’ illuminato dalla fiamma azzurrina completamente stravolto.
«Faranno cacare quelle patate, io ordino».
«VEDI!» strilla lei portandosi le mani ai capelli, scordandosi di avere ancora in mano la forchetta con cui ha testato la cottura delle patate: un pezzo di buccia vola oltre la testa di lui e si schianta sul muro. Lei deve fare uno sforzo enorme per non ridere, gigantesco.
«MA SEI IMPAZZITA?» sta urlando lui, spaventato sul serio, perché pensa che lei gli abbia volontariamente tirato addosso qualcosa e non capisce cosa, per via di tutto quel buio.
«Vabbè scusa è un pezzetto di patata» borbotta lei, accennando un sorriso che tanto lui non vedrà.
«Ma che fai? Che cazzo c’hai oggi?»
A lei è già passata la voglia di litigare, ma sente di dovergli dire qualcosa, qualcosa che sta scavando nella sua mente da qualche minuto, una consapevolezza luminosa che le sta un po’ dando alla testa.
«Mah, niente» tergiversa, si siede a tavola guardandosi le mani, si rigira un braccialetto colorato, uno di quelli “da desiderio”, poi con un gesto secco se lo stacca. «Ti fai passare tutto addosso» gli dice alla fine, alzando le spalle. «Succede una cosa, e la guardi succedere. Tipo, ieri ti è caduta una carta a terra qua in casa e non l’hai raccolta. Pulisci le macchie dal tavolo leccandoti il dito e strofinandocelo sopra». Tira via una pellicina dal pollice e quello si mette a sanguinare un po’. «La metro sta partendo, tu potresti prenderla ma cammini, il cesso non scarica per due settimane e tu invece di chiamare l’idraulico continui a buttarci secchiate. Fai così con tutto, trovi sempre la soluzione più difficile poi».
Lui sta in piedi, come sorretto da uno di quei supporti delle Barbie da collezione, e non parla.
«Cioè, sono andata al supermercato ieri, ho comprato due bistecche così ce le mangiavamo appena tornati, senza pensare troppo a cosa cucinare, e tu che hai fatto?» Adesso che ha iniziato è come quando vomita dopo aver bevuto troppo, le viene tutto fuori a fiotti, con potenza dalla bocca spalancata. «Hai congelato la carne appena comprata e aspettato che si scongelasse quella che avevamo già! Ma che senso ha?»
Lo vede allargare le braccia, nemmeno troppo vigorosamente.
«Capito il piccione quindi?» continua lei stropicciandosi gli occhi, stanchissima.
«Ancora il piccione?» Sente il suono assurdo degli occhi di lui che strabuzzano dalle orbite. «Ma che cazzo c’hai con ’sto piccione?» Qualcosa pare averlo risvegliato.
«È inciampato! Camminava sul marciapiede e in un punto in cui una radice aveva sollevato la strada è inciampato!» Lei porta le mani alla fronte, tormentandosela, come per fare spazio al concetto.
«Ebbè? Io l’altro ieri correvo al parco e ho visto un corvo che si mangiava la merda, lo sapevi tu che i corvi si mangiano la merda?»
«Mamma mia che coglione che sei». Lei scuote la testa, le mani sulle tempie, la fronte di nuovo distesa davanti all’impossibilità di spiegarsi.
«Ma se stai dicendo delle cose assurde». Lui torna a ridacchiare, con l’aria di chi si illude di avere di nuovo appigli per contraddirla. «Che c’entra quello che faccio io con il piccione, minchia, sono due ore che parli di ’sto piccione, che cazzo te ne frega, dico io?» Ora pare essersi gonfiato, lì al buio, e lei ci potrebbe scommettere che è diventata paonazza quella sua pelle delicata da rosso. «Quando avevamo i nidi sul balcone avevi montato tu gli spilli, i corvi finti, avevi riempito tutto di vetri, veleno, a una certa hai proposto di mettere la colla sulle ringhiere così rimanevano attaccati, mi sembrava Mamma ho perso l’aereo coi piccioni e mo ti dispiace se uno inciampa? Ma che cazzo c’hai in testa oh?»
«CHE CAZZO ME NE FREGA DEL PICCIONE SPERIAMO SIA MORTO!!!» urla lei come un’ossessa, alzandosi in piedi, sbattendo le mani sul tavolo e facendo ondeggiare in modo pericoloso il vaso con dentro la lavanda secca. Un po’ di fiorellini viola si spargono per il pavimento della cucina e riempiono l’aria di profumo. «Ti sto dicendo che tu sei come quel minchia di piccione! Cazzo, lui cammina, inciampa sul marciapiede e quasi cade su quelle microzampe, e poi continua a camminare! Può volare! QUEL PICCIONE, TUTTI I PICCIONI POSSONO VOLARE! Invece camminano, camminano per strada, esitano quando vedono una macchina e invece di usare le ali continuano a camminare, accelerano un po’, e cosa succede poi? Teste mozzate, teste di piccioni mozzate, piccioni schiacciati come dentro ai tostapane. Tu sei senza testa, ti vedo schiacciato per terra ogni giorno, sbudellato, pieno di sangue, morto stecchito sotto le ruote di un furgone DHL, morto, proprio morto, solo perché, che cazzo, ti sei scordato di aprire quelle ali del cazzo che hai, ma sarai deficiente?»
Cade un silenzio totale e lei si sente ansimare un po’. Lui è un corpo in piedi, senza viso e senza bocca, occhi, fronte, e sembra una persona che non parlerà mai più.
Poi uno schiocco, secco come quando un ciocco brucia nel camino, e una lingua di fuoco azzurrino che sale fino alla cappa li fa balzare verso la cucina, insieme. Spengono il gas, si arrabattano intorno alla pentola di patate, sollevano il coperchio incandescente scoprendo la desolazione del carbone, la tristezza della cenere.
Lui si strizza il labbro superiore tra le dita sottili, lei incassa il collo nel tentativo di trattenersi, poi scoppiano a ridere nello stesso momento, accendono la luce della cappa per vedere quei due reperti di tubero, lui li fotografa col telefono, lei mette la pentola fuori dalla finestra per farla raffreddare e disperdere il fumo.
«Vabbè, quindi ordino» dice lui, ridendo, e si avvia in salotto, accendendo tutte le luci nel tragitto, sbattendo i talloni nudi sulle mattonelle, forse per darle fastidio.
Lei si siede per un attimo ancora, in mezzo alla foschia del fumo delle patate ora ingiallita dalla luce del corridoio, e osserva gli indizi di quella lite sparpagliati sul pavimento: fiori di lavanda come chicchi di riso dopo uno sposalizio, succo al mango che ancora gocciola dal cartone svenuto sul tavolo, il suo braccialetto dei desideri, una buccia di patata in un angolo. Dopo un po’ si alza e si avvia per seguirlo, ma inciampa e guarda in basso, verso la silenziosa ciabatta del discount. La calcia, poi sorride.


giorgia melillo racconto

Giorgia Melillo è nata nel 1990. Si è laureata in Lettere moderne a Firenze e in Editoria e scrittura a Roma. Ha iniziato a lavorare a Radio Kaos Italy come responsabile di redazione e autrice di due programmi; contemporaneamente ha scritto per Monthly Music, magazine online che ora è nel paradiso del web. Dopo la laurea ha frequentato l’Accademia di trucco cineteatrale Studio 13 intraprendendo la carriera di truccatrice per il cinema e il teatro.