Pratiche curatoriali e rifugi per non-umani

Nella seconda metà del XIX il naturalista tedesco Ernst Haeckel è stato il primo a definire il termine ecologia. Partendo dall’etimologia, fa riferimento non solo al ben noto termine greco oikos [casa] ma anche al termine chora, letteralmente “luogo di residenza”. Nel tentativo di descrivere un proto-pensiero ecologico, l’attenzione di Haeckel non era rivolta allo studio dell’ambiente in cui si trova l’essere umano, ma alle relazioni tra specie diverse che permettono all’ecosistema di essere un luogo di rifugio. Lynn Margulis, la più importante biologa evoluzionista del XX secolo, è stata tra l* prim* a ipotizzare che –oltre e all’interno della nostra pelle– esiste un’interdipendenza complessa di materia ed energia tra milioni di specie e che solo il riconoscimento di questa rete relazionale rende possibile la sopravvivenza sul pianeta. All’alba del pensiero ecologico, dunque, la concezione di interdipendenza e relazioni multispecie si è innestata ancora prima di teorizzare quello che oggi chiamiamo Antropocene. Alla base di queste formulazioni teoriche c’è un tentativo storico delle scienze sociali e naturali di collocare orizzontalmente umani e non umani nella ricostruzione di un ecosistema. Guardando all’oggi, questo tentativo si rispecchia pienamente nelle pratiche curatoriali e artistiche contemporanee, ed è particolarmente evidente se si pensa alle macro-manifestazione del sistema arte come le biennali. Tra gli esempi più recenti si possono citare Manifesta 12, ispirata al saggio Il Giardiniere Planetario di Gilles Clément (2008), la 16‭ᵃ Biennale di Istanbul curata da Nicolas Bourriaud intitolata Il Settimo Continente e, ovviamente, l’ultima biennale d’arte di Venezia Il latte dei sogni, ispirata al pensiero della teorica del post-umano Rosi Braidotti. Parallelamente, queste tematiche stanno rivendicando sempre più spazio anche nella dimensione più locale e periferica come festival, mostre, progetti di residenza artistica e ricerca accademica. Gli strumenti curatoriali e le pratiche artistiche sono nel mezzo di un processo di riconfigurazione, necessaria per recuperare una composizione del pianeta in termini biologici-culturali-politici-tecnologici. Attraverso il suo vocabolario fabulativo e immaginifico, Donna Haraway inquadra un possibile futuro dove sviluppare piattaforme di pensiero tentacolare attivo e creare reti di parentele, ovvero reti di prossimità tra umani e non-umani. Le parentele si generano in sinctonia e simpoiesi, cioè attraverso configurazioni condivise che superano il principio di autosufficienza dei sistemi viventi individuali, ponendo alla base dell’evoluzione processi intersezionali, collettivi e multispecie. Se consideriamo la prassi curatoriale e artistica come ricerca sul campo di questi concetti, osservare come essa si costruisce e crea possibili alternative può restituire intuizioni importanti permettendoci di ipotizzare nuovi luoghi di rifugio e di residenza [chora] per umani e non-umani insieme.

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Giacomo Gerboni, L’Arcobaleno, Crediti fotografici di Luca Tavera

Se gli alberi vedessero, che mostra potremmo curare per loro? Se gli animali interagissero con le opere d’arte, che forme avrebbero gli spazi espositivi?

Questi sono gli interrogativi che hanno accompagnato l’esperimento curatoriale del festival d’arte contemporanea Parmossa, che si è svolto lungo l’argine del torrente che circonda la campagna agricola di Torrile, una frazione della città di Parma. Il festival è stato organizzato dal Centro per la Cultura Contemporanea Pianeta Fresco, uno spazio di convergenza tra ricerca artistica e scientifica, dedicato alla comunità locale, a residenze artistiche e attività culturali interdisciplinari. Durante il mese di ottobre 2023, Pianeta Fresco e l’argine del torrente sono diventati un parco effimero di sculture d’arte contemporanea che ha coinvolto 22 artist* italian* e internazionali. L’obiettivo del festival è stato quello di interagire con un pubblico composto non solo da passanti e da visitator* ma soprattutto da piante e animali. Il cuore del progetto ideato dalla curatrice indipendente Giorgia Ori è quello di testare pratiche curatoriali e artistiche all’interno di una superficie espositiva che si sovrapponga perfettamente con l’ecosistema, ampliando quello che Tony Bennett aveva definito “il complesso espositivo” anche alle soggettività non umane. Perché non considerare che fuori dal pubblico dei vernissage esiste un pubblico altro di non-umani a cui non abbiamo mai ambito? Perché non occuparsi di un suo altro senso estetico? È su queste domande che l* artist* hanno realizzato i loro interventi, allargando lo spettro della partecipazione a ogni pianta, animale, batterio e persona lungo il torrente. 
Il percorso espositivo, accompagnato da un’audioguida accessibile su SoundCloud, si snoda in dodici interventi cross-mediali che spaziano tra pratiche performative, relazionali, sound art, arti visive e linguaggio poetico. Il percorso inizia proprio a Pianeta Fresco, dove Bruno Fantelli ha esposto i suoi mostri, entità che mescolano le specie e i generi, reinventando dimensioni, colori e forme. Attraverso la pittura, la scultura e l’assemblaggio di ogni genere di scarto ha plasmato delle identità multiformi che riescono a negoziare ogni volta la loro mostruosità davanti allo sguardo di chi li osserva: non sono né buoni né cattivi, né animali né umani. Proseguendo verso la campagna circostante, il filo conduttore degli interventi site-specific è quello di confrontarsi invece con le specificità dell’ambiente in una costante dialettica tra prossimità e distanza, costruzione immaginifica all’interno dell’ecosistema del torrente e del suo argine. Giacomo Gerboni, indagando la natura primitiva dell’essere umano e il suo rapporto con l’invisibile ha cercato di addentrarsi in questa dialettica con l’opera “Arcobaleno”. Attraverso un processo di assemblaggio ha realizzato un arco di legno e ha scoccato sette frecce contro il paesaggio, creando così sette nuovi innesti arborei fusi permanentemente con i tronchi che costeggiano il torrente. L’artista e poetessa Giulia Crispiani si è invece fatta fiume attraverso il linguaggio poetico, dedicando all’argine la serie di 15 poemetti “Fiume fiume femmina”. Falak Vasa, scrittor* e artista interdisciplinare di origini indiane e con base a Providence (USA) ha ideato l’installazione sonora “Portals”. Usando il linguaggio come input e il suono come output, ha realizzato un lavoro di sound art con rimandi alla drone music e alle pratiche di canto armonico, invitando umani, non umani e inter-essere di mezzo a trasformarsi in respiro, trascendendo definizioni e categorie. Il rapporto tra questi lavori e l’argine non si basa sulla loro permanenza fisica, ma piuttosto sul riconoscimento di un’impermanenza fluida, di un’esperienza irripetibile e fugace.

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(1) Chiara Druda, Le confidenze, Crediti fotografici di Sofia Casadio

(2) Chiara Druda, Le confidenze, Crediti fotografici di Luca Tavera

L’effimero e l’ineffabile sono i due concetti chiave di “Le confidenze”, cinque sculture realizzate dall’artista e ceramista Chiara Druda. In modo estremamente poetico, ha collocato cinque piccoli uccelli madreperlacei lungo il sentiero dell’argine, a disposizione di chiunque desiderasse usare una lingua libera e originale per esprimere ciò che solitamente non ha orecchie per essere udito. Le sculture possono essere indossate sulla punta della dita oppure mescolarsi con l’erba, attivate a seconda dello sguardo che le osservano. Creare ponti tra umani e non umani è anche l’approccio su cui Giorgia Mocilnik, artista, apicoltrice e naturalista, fonda la sua pratica. Attivando connessioni tra arte e scienza, ha studiato come le vespe costruiscono il loro nido, cercando, masticando e impastando cellulosa da ogni risorsa possibile: dalle piante alla pervasiva cartellonistica pubblicitaria. Per l’artista, la cellulosa è un trait d’union tra l’architettura umana –che usa la cellulosa per creare beni di consumo– e l’architettura animale. Grazie ad un laboratorio dedicato alle modalità di riciclo della carta ha sviluppato la scultura luminosa “Ingegneri di cellulosa” e “Colorful seeds dispersal”, una serie di fogli di carta riciclati e biodegradabili arricchiti di semi di papavero, destinati a innestarsi nel suolo una volta sciolta la cellulosa. Ricercare una connessione con il mondo non antropico, recuperando conoscenze attraverso i materiali vivi come fibre e piante è un modo per esplorare in modo critico la nostra implicazione nel paesaggio che abitiamo. Raccogliendo fiori e piante spontanee del giardino di Pianeta Fresco l’artista visiva Miriam del Seppia ha realizzato un’opera in tessuto con la tecnica del natural dye. Per l’artista, la scelta di una pianta o di un particolare tipo di lana è un modo di entrare in prossimità con un territorio e di spendere tempo a contatto con il suo mondo vivente. I processi di raccolta, giardinaggio e tintura per Miriam del Seppia significano intimità e legame, sono un modo di “fare casa”. Relazionandosi ripetutamente ad un luogo e all* su* molteplici abitanti è un modo per osservare la loro implicazione nelle storie recenti, caratterizzate da politiche di commercio globali, di colonizzazione, espropriazione e crisi climatica. Trasformare le simmetrie tra processi umani e processi animali in pratica artistica è anche alla base dell’installazione “Mud Puddling” a cura dell* artist* Giacomo Giannantonio e Viola Morini. Il mud puddling, che letteralmente significa “rimescolamento del fango”, è un comportamento comune a molti insetti e consiste nel cercare e isolare sostanze nutritive presenti nel compost fangoso del suolo. L* artist* hanno dunque realizzato un gazebo, uno spazio utopico per scomporre e ricomporre cinque macro temi: individualità, necessità, arte, comunità e desiderio. Trattandoli come terra da cui estrarre nuovo pensiero, hanno elaborato un complesso progetto grafico e visivo cercando di mappare le modalità culturali di costruzione di identità aliene alla società capitalistica. In modo simile, l’artista Gabriele Longega ha testato la possibilità di formare spontaneamente “comunità” passando attraverso il contatto con il fango. Con il laboratorio di scrittura e lettura collettiva “Camminare nel fango senza lasciare tracce”, l’artista ha sviluppato il concetto marxista di Gemeinwesen –ovvero “essenza comune, comunità”–  partendo dal presupposto che la comunità del Capitale abbia ormai irrimediabilmente preso il posto di qualsiasi altra comunità che possa definirsi “umana”. In questo contesto di totale alienazione Longega propone un allontanamento dalle costrizioni  dell’identità, prediligendo una fluida dimensione del divenire e immaginando la potenziale nascita di nuovi embrioni sulla base dell’imprevisto e del rimosso.

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Gabriele Longa, Camminare nel fango senza lasciare traccia n° 6, Crediti fotografici di Sofia Casadio

Queste forme di sviluppo di comunità presuppongono la costruzione di narrazioni che attingono tanto alla memoria personale quanto a quella collettiva. Per Parmossa, l’artista Caterina Shanta ha costruito un laboratorio di condivisione collettiva di memorie legate all’acqua: torrenti dell’infanzia ormai scomparsi, vallate interamente sradicate dalle tempeste, paesaggi completamente modificati dalle alluvioni. Nonostante la pervasività di dati –visivi, sonori, tattili– che ci circondano, Caterina Shanta guarda alle narrazioni tangenti e liminali che spesso non trovano il luogo adatto per depositarsi. La trama di ricordi legati all’acqua intessuta dall’artista è sia un modo di rivelare la fragilità dei territori causata dalla crisi climatica, ma anche la fragilità della nostra ecologia psichica e il trauma collettivo dell’inarrestabile collasso del pianeta. Costruire relazioni comunitarie, per Alexander Ubelhör e Jurgis Litetunovas passa anche attraverso una dimensione rituale, propiziatoria e ciclica legata alla terra e alla celebrazione delle manifestazioni naturali. Riallacciandosi alle loro origini lituane e svedesi, hanno portato a Pianeta Fresco il rituale del solstizio d’estate legato al maypole. Associato all’onore di madre terra, al raccolto abbondante, alla celebrazione dell’amore e dell’unione, l’albero di maggio è un tronco ornato di fiori e ghirlande che accompagna con danze rituali i festeggiamenti del periodo estivo in molte aree del Nord Europa. È curioso che proprio nella cultura mainstream di quelle stesse aree geografiche, recentemente sia avvenuta una riscoperta di pratiche ed estetiche legate ai neopaganesimi. L’interesse dell* artist* non è però focalizzato sulla rievocazione superficiale di pratiche legate al druidismo o alla religione wicca, ma sulla capacità di questi rituali di creare momenti densi di connessione e relazione. L* partecipanti hanno ornato il tronco con materiali naturali, realizzando uno spirito arboreo che lentamente si sarebbe decomposto estendendo la relazione nuovamente alla terra sotto forma di compost. Questa stessa dimensione di rito collettivo, si avvicina anche al lavoro di Eva Vallania e Giulia Wetter. Intersecando arte e fashion design, hanno trasformato Pianeta Fresco in un atelier con un workshop dove i tessuti sono stati utilizzati per realizzare dei copricapi personalizzati, quasi votivi, che guardassero alla dimensione celebrativa della festa. Una festa celeste, boschiva, che in un certo senso riporta sia all’immaginario shakespeariano di A Midsummer Night’s Dream che alle celebrazioni intorno al maypole che affascinano Alexander Ubelhör e Jurgis Litetunovas.

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Giorgia Mocilnik, Laboratorio per la creazione della scultura Ingegneri di Cellulosa, Crediti fotografici di Sofia Casadio

Cosa dunque emerge da una mostra curata per disfare il confine tra umano e non-umano, tra sapere rigido e ibrido? A questo punto, avendo ri-tracciato il percorso lungo l’argine, si torna ancora agli interrogativi che hanno aperto il festival di Parmossa. Lo sguardo si apre inevitabilmente su un discorso più ampio rispetto alle pratiche curatoriali che si occupano di una agency estetica non-umana. L’estetica – che etimologicamente richiama il concetto di “sensazione” – esprime la capacità di ciascuna soggettività di percepire attraverso la mediazione dei sensi. Se il campo dell’estetica umana si inserisce in una vasta letteratura, molto diversa è la questione relativa alla percezione estetica animale o vegetale. L’artista e critico James Bridle ha pubblicato nel 2022 “Modi di Essere. Animali piante e computer: al di là dell’intelligenza umana”, un atipico saggio che rilegge il ruolo dell’intelligenza artificiale alla luce delle ultime riflessioni sull’intelligenza vegetale e animale. Il punto di partenza della sua riflessione parte proprio da come le soggettività percepiscono il mondo, e di conseguenza costruiscono una propria rappresentazione di esso. Bridle utilizza il concetto di Umwelt. Non è un termine nuovo, ma coniato dal biologo tedesco Jakob von Uexküll nel XVIII secolo e si traduce letteralmente in “ambiente” o “dintorni”, ma  – come lo stesso Bridle ribadisce – essendo tedesco significa molto di più. L’Umwelt connota infatti la prospettiva particolare di un determinato organismo, il suo sguardo, ovvero il suo modello interno di rappresentazione del mondo. Ogni organismo crea la propria Umwelt, e continua a modellare senza sosta percezioni e conoscenze nel suo incontro con ciò che lo circonda. Naturalmente, nel mondo più che umano immaginato da Bridle tutti gli organismi hanno una Umwelt: le piante, gli animali e, ovviamente, anche le macchine. Sempre affrontando la questione della percezione, l’antropologo Eduardo Kohn ha coniato il termine “antropologia non-umana”, ampliando così i limiti della disciplina stessa. Dopo quattro anni di lavoro sul campo immerso nei Runa dell’Alta Amazzonia ha osservato attentamente le relazioni tra la comunità e la foresta, come i segnali di richiamo emessi per la caccia alle scimmie o la cattura delle formiche. Kohn racconta che gli sciamani del fiume Napo, nelle loro visioni indotte dal distillato psicoattivo ayahuasca, vedevano i runa puma, che in lingua kichwa significa uomini-giaguaro. Questi mutaforma avevano la caratteristica di riuscire ad adottare la stessa rappresentazione del mondo dei giaguari, infestando la foresta e attaccando i villaggi alla ricerca di prede. Secondo Kohn ciò che condividiamo con le creature viventi non umane non è la corporeità [embodiement], ma il fatto che viviamo tutt* con e attraverso i segni. La comunità Runa conosce e condivide con la foresta i segni per stanare le formiche tagliafoglie dalle loro buche e riconosce che un essere umano può trasformarsi in giaguaro e adottare la sua rappresentazione del mondo. Partendo dunque semplicemente dalle basi del processo semiotico, Kohn realizza che le foreste sono delle ecologie a sé, spazi dove i diversi viventi interpretano i segni degli altri viventi continuamente. Lo stesso processo avviene lungo l’argine del torrente Parmossa, dove le frecce di Giacomo Gerboni hanno abbandonato la loro significazione in quanto oggetti e si sono trasformate in rami. Come i runa puma, Giulia Crispiani ha innescato la propria metamorfosi in fiume, usando il linguaggio poetico per slittare la propria rappresentazione del mondo.

Alexander Ubelhör e Jurgis Litetunovas, Maypole, Pianeta Fresco, Crediti fotografici di Sofia Casadio

Inquadrare la teoria non umana cucita dalle scienze sociali all’interno dell’arte contemporanea richiede una traslazione importante del concetto di estetica, che liberata dal bondage antropocentrico, riconosce la persistenza di percezioni del mondo multiple, di eteroglossie e di un reale ripensamento del rapporto artista/curator*/comunità. Come suggerisce Nicolas Bourriaud, elaborare un’estetica contemporanea dell’Antropocene significa pensare l’attività artistica come un insieme di procedure che, variabili a seconda delle epoche e dei luoghi, consistono sì nell’emettere segnali destinati ad altri umani, ma all’interno di una semiosfera  più vasta, dove co-abitano specie non-umane, piante, minerali e microrganismi. Il focus non è dunque sull’oggetto artistico in quanto opera, ma su tutte le procedure e la rete di segni  che ne fanno parte. L’argine di un torrente tra i campi agricoli di Torrile vive esattamente come la foresta dei Runa dell’Alta Amazzonia. L’empasse da scavallare a questo punto è dunque quella di adottare nuove prassi. Le azioni che l* artist* hanno messo in gioco durante il festival Parmossa hanno una portata sperimentale in questo senso, perché condividono una natura cross-mediale, relazionale e consapevole della rete non umana con cui sono coinvolt*. Inoltre, risulta fondamentale rompere la settorializzazione epistemologica che vuole tenere separate arte, scienza, sociologia, antropologia e biopolitica. È proprio all’intersezione tra questi saperi che si collocano, per esempio, le ricerche di Giorgia Mocilnik, Miriam del Seppia. Ancora una volta si torna a Donna Haraway: abitiamo le humusità, non le umanità. Fare compost per Haraway significa creare mondi [worlding] aperti, ospitali, dove coltivare parentele queer, realizzare una comunità in un incessante lavoro di composizione-decomposizione. L’humus, in questo caso, è anche il compost fangoso e brulicante di vita a cui si riferiscono Gabriele Longega, Giacomo Giannantonio e Viola Morini. Per creare mondi, dunque, è necessario tornare verso prassi multidisciplinari, ibride, e un’idea di cura come creazione di rifugi nel margine.


Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019.

James Bridle, Modi di Essere. Animali, piante e computer: al di là dell’intelligenza umana, Rizzoli, 2022. 

Eduardo Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, 2021.

Nicolas Bourriaud, Inclusioni. Estetica del Capitalocene, Postmedia Books, 2020.

Immagine di copertina: Crediti fotografici di Sara Lorusso


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