A cura di Camilla Sini e Federico Sacco.
«J’appelle monstre toute originale inépuisable beauté» (Alfred Jarry)
Abbiamo chiesto a un’intelligenza artificiale di scrivere l’incipit di questo editoriale. Ci ha detto che nel caleidoscopico mondo di questa rubrica le identità avrebbero danzato nella dimensione in cui il comune incontra l’inaspettato, e dopo le banalità sul colore dell’arcobaleno che illumina il sentiero della diversità, abbiamo capito che ci saremmo dovut* arrendere al fallimento delle nostre immaginazioni.
«Preparatevi per un’avventura mozzafiato, dove la normalità si fonde con l’eccezionalità, e l’amore per la diversità è la nostra guida illuminata.»
Dai, no.
Intersext è corpo inter-sessuale e inter-testuale, creatura vivente: aperta alle possibilità, mutaforme (più terrestre che aliena), dunque psicotica, ma che pur di non farsi ospedalizzare si farebbe tagliare un braccio – ‘fanculo, ne ricrescerà un altro – bionico, animale. O anche no. È un’idea transtestuale e transmediale che accoglie nel significato di testo l’immagine, il suono, il gesto, i corpi – e ne prende la forma, l’odore, lo sbrana, lo defeca, lo scopa, lo rimette al mondo.
La mutazione intercambiabile tra sex e text indica il nostro desiderio di corporeità, pulsante dell’approccio intertestuale. I nostri corpi che fanno esperienza del mondo diventano allora testi terroristici barthesiani, demoliscono la fissità granitica di questo spazio-tempo grazie al loro eccedere costante, grazie al polimorfismo schizoide che rende loro impossibile l’omologazione: individui incompiuti a cui è possibile vedere l’Altro in quanto individuo in divenire e non altro-da-sé.
L’inter-azione performativa e l’inter-connessione fondativa di questi testi-corpi (corpi-testi) ci svincola dal peccato originale come accade al cyborg (Haraway, ma quante ne sai?), distrugge la gerarchia dell’inizio e della fine facendola implodere: tatuato da virgolette alte e caporali, il corpo post-postmoderno di Intersext ingloba la citazione come componente organica del proprio essere, non rinnega l’allusione, il plagio, non rivendica originalità o primati.
Siamo parassiti, mangiamo dove capita ciò che è vitale, senza rinunciare alle carcasse decomposte del mito: preistorie letterarie, pensieri avariati, merda decadente, secoli dorati e anni bui, psicologie depravate. Idiosincrasia per l’eroe Ulisse, per gli altarini ammuffiti, per la serietà ipocrita; attrazione fatale per riferimenti che si riappropriano dello spazio accademico delle note creando baccanali da cui attingere: fluidi orgasmatici prodotti dal corpo di questa rubrica, alimentato a sua volta da altro testo (fluido, corpo, pensiero che sia) che torna alla bocca (o al culo) di altri corpi-testi o testi-corpi. Un’orgia potenzialmente infinita, o essa stessa corpo pantagruelico in continua masturbazione. È il Gargantua rabelaisiano? Siamo il dio-cane azteco? Il demone Behemoth? La creatura squamosa che popola gli abissi? La mitopoiesi di Intersext è ontologicamente negata e coscientemente rifiutata; l’eclettismo del suo/nostro corpo, la porosità del suo essere nel mondo, la rendono una creatura pulsante senza identità, se non nella combinazione meccanica di tutte quelle possibili.
Intersext vuole sfruttare il potenziale sovversivo dei segni, aprire il processo di significanza (Riffaterre sexy semiologo <3) a immagini deformate e a suoni inusuali, instaurando una relazionabilità infinita con chi ascolta, legge, scrive e guarda.
È un tentativo di risignificare la realtà – o meglio, di significare una realtà propria in contrasto con la monoliticità dei sistemi dominanti, mostrandone le fragilità e demolendone i simulacri, con la potenza fragorosa di un peto – o con il profumo di una manciata di glitter (biodegradabili, possibilmente).
È inevitabilmente corpo queer, nella fluidità del suo essere in divenire, nella potenza caosmotica (un bacio a Preciado) del suo desiderio, nell’orizzontalità anale del suo approccio all’Altro e nel suo tentativo fallimentare di contribuire alla rivoluzione epistemica in corso.
Così, nello spazio di una preposizione latina, inter, assumiamo un posizionamento definito per sottrazione in cui trova spazio il non-essere – e costruiamo un rapporto di reciprocità tra sintagmi, (s)oggetti liminali e relazionali: siamo creature che cercano uno spazio e un tempo altri rispetto al sistema manicheo di cui occupiamo tutt’al più i margini, ma soltanto perché ci è stato concesso così.
Abbiamo scelto di occupare questo spazio ibrido scollegato dal mondo (raggiungibile solo con servizi di autobus mal gestiti, e infinite catene di treni regionali) per creare nuove strutture, mobili e ricomponibili, nomadi – per costruire nuove relazioni e recuperarne di passate, illuminate da lampioni ultravioletti e luci stroboscopiche. Il farsi minoranza consapevole produce trasformazioni (strizzatina di culo a Deleuze) sulla realtà putrefatta, imbalsamata in gabbie identitarie al riparo delle monocolture (noi bimbɜ di Poidimani), perché è dalla prospettiva dell’Altro, che noi facciamo fruizione della realtà.
E la vista non è ostruita da una merda di siepe, ma da montagne di merda.
Questo spazio periferico è oggi il nostro corpo: noi entità materiche e digitali che scriviamo (per ora), e voi entità materiche e digitali che leggete (per ora) – rapporti arbitrari che sfumeranno nell’organicità della materia – Intersext.
In copertina: herumliegen/fremdkörper, Miriam Cahn, 2016