Valentina Tanni nasce a Roma nel 1976. Insegna Digital Art al Politecnico di Milano, Estetica dei New media e Linguaggi dell’Arte Contemporanea alla NABA, e ancora Meme Culture and Aesthetics e Digital Media Culture alla John Cabot University di Roma. La sua ricerca di storica dell’arte si focalizza sul rapporto fra arte e tecnologia, con un’attenzione particolare nei confronti delle culture del web. Fra le sue pubblicazioni, ricordiamo Random. Navigando contro mano, alla scoperta dell’arte in rete (Link Editions, 2011), Memestetica. Il settembre eterno dell’arte (Nero Editions, 2020) e il più recente Exit Reality. Vaporwave, backrooms, weirdcore e altri paesaggi oltre la soglia (Nero Editions, 2023). Negli ultimi anni, l’autrice ha svolto un grande lavoro critico di storicizzazione e analisi dei fenomeni estetici e culturali nati e sviluppatisi su internet: in quest’intervista, Tanni ci accompagna nell’esplorazione meta-testuale del suo ultimo saggio, parlando di trauma, di cura, di collettività mediale e di memetica.
Il 17 settembre siamo andati alla presentazione romana di Exit Reality, ultimo saggio di Valentina Tanni, ma non siamo riusciti ad ascoltare un granché. Fuori dalla sede di Nero, sul Lungotevere degli Artigiani, si era raccolto uno sciame intellettuale che quasi impediva l’ingresso: un’aggregazione del sottomondo editoriale, solida ma penetrabile, dove noi – spritz e birra gelida ad orario aperitivo – ci siamo mossi in forma interstiziale, gassificandosi, cercando di tendere le orecchie. C’era grande partecipazione, una voglia collettiva di parlare. Quando tutto è finito, col sole incerto sul piede del tramonto, a microfono spento, siamo riusciti a intercettare l’autrice e a ringraziarla per quando, pochi mesi fa, ci ha concesso di tradurre un suo articolo in inglese e di pubblicarlo sul nostro ultimo cartaceo, sono hackeratə. Un breve saluto, poche frasi di circostanza fra persone che di fatto non si conoscono: abbiamo rimandato una chiacchierata più ampia a una data da destinarsi, nel futuro – e alla fine abbiamo parlato davvero, ci siamo incontrati davvero, abbiamo parlato di cose e cose, mediati da una piattaforma online. Normalmente diremmo che la coerenza non ci appartiene, non appartiene a noi in quanto membri di questa rivista, ma trovarsi in un luogo digitale per confrontarsi (avatar, simulacri di noi stessi) ci sembrava il giusto raddoppiamento tematico del saggio di Valentina Tanni. C’erano tante domande nell’aria: le abbiamo travolte con un vero dialogo, e ci siamo dati del tu.
Pietro Bocca: Partirei proprio dal punto zero, quindi dal chiederti di dare un’immagine di quel che è Exit Reality – come saggio, come forma di studio. In che modo hai lavorato per arginare la moltitudine dei materiali di internet e per tradurli in una pratica di scrittura?
Valentina Tanni: Il libro nasce da un mio interesse storico per le culture che nascono e crescono online. Mi sono sempre occupata moltissimo di culture digitali. In quanto storica dell’arte, la mia ricerca è partita dal rapporto tra arte e tecnologia (e soprattutto tra arte e internet). Quando mi sono laureata ho scritto una tesi sulla Net Art: era un movimento atipico – i partecipanti erano artisti, ma spesso non lo erano nel senso classico del termine: le personalità all’interno del movimento erano di estrazione molto varia, erano vicine al mondo dell’hacking e/o dell’attivismo… era un movimento artistico, senz’altro, ma al di fuori dal mondo dell’arte propriamente detto, e nasceva interno alla rete come un ambiente aperto, dedicato alle nuove culture che si sviluppavano online. In seguito, anche in Memestetica mi sono interessata ai fenomeni online che portano a un’evoluzione culturale, a una creazione di linguaggi e input creativi, ed Exit Reality nasce in parte per continuare quel discorso. Lo spunto iniziale, però, è stato un articolo sulle backrooms che ho scritto per la rivista online di Not, nel 2022, in cui cercavo di analizzare la natura del fenomeno e le sue implicazioni cercando, insomma, di dargli un senso, di capire cosa fosse cambiato rispetto all’universo dei creepypasta da cui era stato partorito. Un’immagine con poche righe di didascalia – quindi un’idea attaccata a un’immagine, un’interpretazione attaccata a un’immagine, con il risultato di dare vita nel corso del tempo a una mitologia vastissima, a una narrazione partecipata che coinvolge milioni di persone nel mondo. Entrando nell’argomento da questo punto d’accesso, mi sono resa conto che le possibili estetiche e i possibili linguaggi sono davvero tanti e collegati fra loro. Ed è un mondo difficile da sistematizzare, perché muta continuamente: riconosci delle direzioni, degli stimoli, ma spesso non hanno una struttura, dei nomi riconoscibili o una gerarchia interna, proprio perché si tratta di fenomeni estremamente spontanei. Ma mentre la ricerca procedeva, mi sono resa conto che c’erano dei fili conduttori molto visibili: prima l’ho percepito in maniera istintiva, poi con lo studio ho cominciato a mettere insieme i pezzi. Ad esempio, avevo vagamente intuito che la Vaporwave, nata negli anni Dieci, fosse un punto di riferimento importante, ma solo nel corso della successiva ricerca ho trovato conferme e riferimenti sempre più centrati. Una volta individuati alcuni fili conduttori, la reazione più naturale è stata cercare di mapparli in un modo leggibile.
PB: Hai parlato delle backrooms come di un fenomeno che finisce per costruire una narrazione collettiva e partecipata. Anche le diverse wave, i diversi –core (weirdcore, dreamcore, sadcore…), sembrano tutti essere tentativi di narrazione. O di auto-narrazione, spesso. Mi colpisce lo strano rapporto che si crea fra il portato sentimentale di queste estetiche, basate sulla propria esperienza personale, da un lato, e il corrispettivo tentativo di imporre un certo tipo di spaesamento visuale dall’altro. Come interpreti tutto ciò?
VT: Spesso sono immagini, suoni, animazioni o testi che vengono prodotti senza un interesse specifico nel fare arte, o nell’essere riconosciuti come artisti. Quello che c’è alla base è un’urgenza espressiva che riguarda il racconto dell’interiorità – e questo è uno dei fili conduttori di cui parlavo prima. Sono narrazioni che riguardano quello che ci succede dentro – narrazioni sensoriali, direi, che sottolineano quanto la nostra percezione (sia sensoriale che emotiva) influenzi la nostra vita e ciò che la circonda. La scelta del titolo “Exit Reality”, infatti, non va intesa come il riferimento a una fuga dalla realtà; il punto centrale non è la fuga, quanto il tentativo di capire come funziona il nostro rapporto con la realtà, cioè: cosa consideriamo realtà, e in che modo la nostra interiorità influenza quello che poi percepiamo fuori, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Non a caso si tratta di questioni spesso collegate al concetto di derealizzazione e a quello di sogno, o di sogno lucido, o comunque all’idea di poter accedere a una dimensione intermedia. A un “di là”, no? Anche gli stati meditativi, se vuoi, oppure l’utilizzo cosciente di sostanze psicotrope di vario genere per accedere a un altro stato delle cose – a una dimensione della realtà che non è abituale, regolare; che non è quella che ci hanno sempre raccontato e con cui ci siamo sempre confrontati. Mi sembra che tutte queste estetiche abbiano in comune la volontà di raccontare questa alterità (cioè il mondo interiore) con varie sfumature – perché a volte si tratta di una tensione leggera, positiva, esplorativa degli stati interiori; a volte sono invece manifestazioni molto… intense, e anche dolorose.
PB: Quasi un esorcismo.
VT: È la manifestazione di un mondo che produce anche molto dolore, molta inquietudine. Alla fine è una grande esplorazione dell’inconscio collettivo. Il fatto che questi macrotemi vengano esplorati attraverso l’uso di elementi ricorrenti, inoltre, è una strategia di elaborazione (di nuovo) collettiva: se si riesce a trasmettere una determinata sensazione, una certa energia (vibe, mood, tutte parole ricorrenti), un certo stato emotivo, mentale, sensoriale, si crea una connessione tra chi crea l’immagine e chi la guarda. A un certo punto alcuni elementi specifici vengono riconosciuti come più adatti per incapsulare quella sensazione e trasmetterla. E parte la condivisione, il ripostaggio: il prendere quei contenuti per crearne altri. In questo, poi, sotto sotto c’è anche una dinamica memetica, naturalmente, perché l’abitudine comunicativa che abbiamo sviluppato, legata all’elaborazione di oggetti mediali (riprendere una cosa che qualcun altro ha fatto, farne una versione leggermente diversa, rimetterla in circolo), è… la dinamica dei meme. Il linguaggio funziona quando ci sono degli elementi in comune, un vocabolario della comunità in continuo aggiornamento. E la cosa interessante è proprio questa: che ci sono elementi che continuano ad aggiungersi.
PB: Come se si muovessero per fusione e geminazione.
VT: È un meccanismo di espansione. Lì entra in gioco anche il concetto di lore, no? Narrazioni che nascono da piccoli spunti, che vengono colti e poi espansi al punto da diventare una narrazione effettiva. Una mitologia che appartiene a tutti.
PB: Sembra che tutto ciò, fra l’altro, rientri in un processo quasi di cura, di terapia: che ci sia un rapporto fortissimo col proprio mondo interiore, certo, ma anche in relazione al mondo interiore degli altri. Sembra che, almeno nelle intenzioni, queste estetiche mirino in un certo senso a uno “stare bene” collettivo.
VT: Sì. Verso uno stare bene. E questa “cura”, questa tendenza al cercare di aiutarsi, si legge sia a livello individuale che a livello collettivo, quando si riesce a stabilire un senso di comunità, un senso di appartenenza. Aiuta a… non sentirsi soli. Una delle cose che ricorre per esempio su YouTube, nei commenti di determinati video (video ambience, sì, o video di tracce musicali specifiche, o ancora live stream musicali), è il ritorno degli stessi utenti al commento, alla condivisione dell’esperienza d’ascolto. Le persone si incontrano di nuovo o per la prima volta sotto lo stesso video.
PB: Gli inserti che hai posto fra un paragrafo e l’altro sono incredibili: commenti di YouTube e citazioni sparse, prese da utenti del web…
VT: Anche quella è una cosa che è cominciata per caso. Collezionare citazioni, in generale, è una cosa che faccio da sempre, e già da molti anni colleziono anche screenshot di cose che trovo online – quindi anche commenti, altri materiali, etc. Qualche anno fa, Federico Antonini ha pubblicato un libro chiamato Raising Moths. Attempts at (Musical) Ekphrasis on Haruomi Hosono’s Watering a Flower. È un testo bellissimo, un testo poetico di un livello molto, molto intenso, basato completamente sui commenti lasciati sotto una traccia musicale. E il senso della mia scelta è un po’ simile a quello. Mentre facevo ricerca per il libro ovviamente tenevo da parte le cose interessanti in cui mi imbattevo: inizialmente le usavo come ispirazione, o per inserire uno sporadico virgolettato, ma poi mi sono resa conto che erano talmente centrali nel discorso che stavo facendo, che… valeva la pena di metterli così come erano. Era importante inserire queste voci “altre” all’interno al discorso, senza volerle necessariamente usare per dire un’altra cosa, o inserirle all’interno di un discorso mio.
PB: Questo processo poi restituisce un senso di collettività, che come abbiamo detto è un elemento centrale del saggio.
VT: Esatto. Per capire veramente il più possibile l’argomento è importante raccontare, descrivere, spiegare come le cose sono fatte – ma è ancora più importante sapere come le persone si sentono (da un punto di vista prevalentemente emotivo), sentire la reazione, studiare come queste cose vengono vissute dalle persone. Perché descriverle non è sufficiente, non basta, non ce la fai a restituire veramente il senso di ogni cosa. Prendi per esempio il dreamcore, con le sue piccole case copia-e-incollate su un prato: descrivere quell’immagine o immagini simili è troppo facile, non ti comunica il senso profondo che esprimono. Immagini che ci sembrano semplici, a volte banali, hanno tutte un’incredibile importanza all’interno di queste comunità, e di conseguenza hanno un’influenza sulla cultura visiva contemporanea in generale. Perché poi queste cose – com’è successo per la Vaporwave, che adesso ce la troviamo dappertutto, anche se non ci facciamo caso – escono dalla sottocultura, penetrano gli strati, e cominciano a permeare l’estetica in generale.
PB: E a volte si integrano nel consumismo generico come nel caso degli ASMR, che sono stati utilizzati anche nelle campagne pubblicitarie di marchi internazionali, come Pepsi o KFC.
VT: A volte possono essere usati in modi superficiali, c’è chi se ne appropria in maniera sbagliata. Però a prescindere da ciò emergono lo stesso, e trovano uno spazio – per cui cominciamo a riconoscere le diverse estetiche emergenti innanzitutto nei videoclip musicali, che sono il primo punto d’accesso, specie quando si tratta di musica indipendente. I canali attraverso cui passano più facilmente sono la musica e la moda. La moda, per assurdo, perché i direttori delle case di moda più sperimentali sono sempre perennemente alla ricerca di trend nuovi, che nessuno abbia mai visto prima.
PB: È un fenomeno curioso. Da un lato c’è un tentativo di rincorrere il futuro, come nel caso delle case di moda; un tentativo di guardare molto avanti. Dall’altro però, all’interno di questo panorama estetico, c’è una grande sensazione di ritorno: un forte sguardo da sopra le spalle, all’indietro, nei termini quasi di un’archeologia mediale. È un cortocircuito.
VT: Non è detto che il futuro abbia l’aspetto del futuro. E soprattutto, visto che tutte le narrazioni sul futuro, anche a livello estetico, si sono rivelate promesse non mantenute, è molto più confortante riprendere oggetti mediali che vengono dal passato – o comunque recuperare nostalgicamente un’epoca che viene associata a un momento della nostra vita personale o collettiva che ai nostri occhi appare migliore, più sicuro, meno minaccioso, più confortante.
PB: Con il risultato però di renderlo artificiale.
VT: Ma in questa rilettura del passato ormai ci siamo dentro con tutte le scarpe, da non so quanto tempo. Questa idea di ripensare quello che è successo, di rielaborare quello che è successo e recuperare gli stili del passato è ormai cosa comune. Tra l’altro, internet è il luogo dove tutto questo doveva succedere per forza, era inevitabile, fa parte del suo DNA: quando ti trovi all’interno di un sistema tecnologico che ti permette di richiamare a te qualsiasi cosa, e con facilità, è inevitabile che poi si entri in questo circolo di remix infinito in cui hai la sensazione artificiale di muoverti sulla linea del tempo. Fra i giovanissimi vediamo emergere tantissimi trend legati a momenti storici che non hanno vissuto. Ma che non hanno vissuto neanche i loro genitori, a volte.
PB: E da questo punto di vista la produzione mediale della Generazione Alfa mi diverte moltissimo, ma spesso mi sconcerta. Percepisco una spaccatura generazionale nella comunicazione, nelle immagini che creano.
VT: A me capita di insegnare anche a ragazzi molto giovani, appena usciti dal liceo, il primo anno di università – e credo che in parte questa cosa che dici sia vera. Però in realtà continua a esistere, secondo me, una frammentazione generale del pubblico di internet. Internet ormai lo usiamo tutti, da molti anni non è più appannaggio di una cultura speciale, e lo usiamo tutti in modo diverso: ognuno ha la sua versione di internet, e se non la sua versione personale, almeno una versione di una parte specifica del web.
L’intervista poi forse prosegue, forse no, sicuramente cambia forma ma parliamo ancora (per noi, per il piacere di farlo) e ci incartiamo in discorsi poco lineari. Partiamo dalle nicchie colossali di internet – nicchie da centinaia di milioni di persone – e arriviamo al “misterioso” funzionamento pratico delle tecnologie digitali, che per le generazioni più giovani appaiono così domestiche nell’affordance ma, al contempo, così imperscrutabili nella loro composizione informatica. Alla fine, stanchi, ci sediamo sulla pietra più scomoda, la più grossa – perché «tutto questo, dal funzionamento degli oggetti digitali che utilizziamo alle limitazioni di un algoritmo, dalla fruizione dei social media al fact checking, tutto questo va insegnato». Parliamo del fuori, insomma. Tutto torna alla scuola, all’insegnamento: proviamo ad hackerare i confini, a fare pratica di malleabilità. Tutti i fenomeni e le estetiche di cui abbiamo parlato sono un riproporsi del dentro, individuale, e un confondersi col fuori, collettivo – una proiezione-simulacro della realtà attraverso la soglia mediale di internet. In questo futuro che non ha l’aspetto del futuro, continuiamo a cercare lo scheletro delle cose.
Tutte le immagini dell’articolo sono ad opera di Jared Pike.
In copertina: Jared Pike, Dream Pool 11.