L’ultimo Gaijin – racconto inedito di Cesare Sinatti | Opera morta

L’opera morta è la parte emersa di uno scafo. È lo spazio che occupiamo su una nave, mentre sotto di noi l’opera viva, i motori, le eliche si affaticano e ci trasportano senza farsi notare. La parte vivente della nave si muove a noi indifferente, come noi lo siamo a lei, dimentichi di essere ospiti, niente più di un carico.  
A meno che tempeste, rocce, iceberg non intervengano a ricordarcelo.
È nell’indagine sul rapporto del reale con tutto ciò che è occultato sotto e intorno a noi, con ciò che si intravede nelle fratture che crepano la parte visibile del mondo – il rapporto, il conflitto, tra opera viva e opera morta –, che risiede il senso profondo di questa rubrica di racconti inediti. Per questo intendiamo superare etichette, distinzioni e concetti di genere, accogliendo tutte le possibilità che il racconto offre: dalla narrazione realistica al fantastico e al weird, dal racconto impegnato a quello intimistico, dalla microfiction alle commistioni con la saggistica.
I fari che guideranno la nostra ricerca sono la letterarietà e la sperimentazione. Con letterarietà intendiamo l’uso consapevole e coraggioso della lingua e la ricerca di una propria voce di scrittor* (che può essere urlata, sussurrata, persino negata). E poi la sperimentazione: propendiamo per autor* che osano, che offrono punti di vista inediti, disturbanti, profetici.
L’ultimo Gaijin di Cesare Sinatti è il primo racconto di Opera morta.

A cura di Claudio Bello e Daria De Pascale


Yet across the gulf of space, minds that are to our minds as ours
are to those of the beasts that perish, intellects vast and cool
and unsympathetic, regarded this earth with envious eyes,
and slowly and surely drew their plans against us.

H.G. Wells, The War of the World

Cinque minuti in anticipo, circuito da uno scudo inutile di platani nudi, Luca si consuma nell’isola di ghiaia di piazza Amiani, unico passeggero in attesa di imbarcarsi nell’edificio della mediateca, col suo guscio esterno ottocentesco lasciato lì in omaggio al gusto dei camminatori del centro città nonostante nasconda inattesi interni rimodernati, fantascientifici, alieni. Pensare che una volta era una scuola elementare. Luca l’ha anche frequentata: vent’anni fa ha trascorso la primissima di molte soporifere giornate in una classe che occupava l’ala destra del palazzo, esiliato dal pianeta dei giochi dei bambini, dove immaginare viaggi e avventure di cui ora non si ricorda più. Io, invece, dei miei viaggi non mi sono mai dimenticato.
Certo, se nel suo corso di laurea gli avessero insegnato a fare effettivamente qualcosa, non avrebbe ancora bisogno di andare a scuola (o in mediateca) il giovedì. Anche perché il giovedì è un giorno di merda, visto che la mediateca fa orario continuato dalle dieci alle diciannove e quindi Luca non ha scuse per restare a casa. Per Luca è ormai giovedì da quasi cinque mesi, ovvero dal giorno di discussione della sua tesi magistrale lo scorso luglio, caduto proprio di mercoledì, ma che avrebbe tranquillamente potuto cadere di domenica, perché come ogni domenica Luca aveva trascorso la giornata a pensare a come si sarebbe arrabattato il mattino dopo, con la sua laurea magistrale in Scienze dei beni culturali e il suo network di ampiezza zero. Trascorso quel mercoledì di festa, è venuto immediatamente il giovedì, sette giorni su sette, per un totale di quasi cinque mesi di giovedì spesi a montare e smontare curriculum, millantare competenze ed entusiasmi inesistenti nelle sue lettere motivazionali, pregare di avere in dono opportunità di fare cose che non hanno nulla a che vedere coi beni culturali, sotto la supervisione lieve ma costante di una coppia di genitori che, seppur orgogliosi del primo laureato di famiglia, sono comunque in apprensione perché si trovi un lavoro al più presto.
Oggi, quindi, essendo di nuovo giovedì, Luca è persino in anticipo, perché dopo cinque mesi sente di non avere più niente da fare da nessuna parte, escluso sedersi al computer, cercare su LinkedIn qualche posizione alle risorse umane, scrivere due o tre lettere motivazionali da lanciare nel pozzo senza fondo di qualche sito web – diluendo la sua produttività durante le nove ore di apertura della mediateca in varie attività ancillari: scrollando social, vedendo video, sentendo album, sempre sperando che qualcuno risponda ma in fondo già non sperandoci più, o sperandoci talmente poco da aver iniziato a prendere sul serio i consigli di sua nonna, da cui era stato a cena qualche settimana prima, e che servendogli un piatto di seppie e piselli mentre in televisione Fabrizio Frizzi domandava a un omino perspirante con mano al mento quale fosse il corrispondente romano del dio greco della guerra, sentendogli dare la risposta esatta dopo aver ingoiato il primo boccone, gli aveva ingiunto: ma vacci anche te, scusa! Sottinteso: a L’Eredità, o a un altro quiz televisivo del genere. E Luca si era effettivamente candidato, nello sconforto di un altro giovedì mattina in mediateca, elencando negli ottocento caratteri della sezione “raccontaci qualcosa di te” tutta una serie di mezze ambizioni, mezzi progetti e mezze idee di cui onestamente ci importa poco. Perché tanto anche oggi, come ieri, non sarà una giornata produttiva per Luca. Oggi, come ieri, Luca si riguarderà il video di Modern Love di David Bowie almeno quattro o cinque volte, ripensando ai furboni come la sua ex compagna di liceo Matilde, che in qualche modo è riuscita a farsi prendere per fare supplenze in una scuola di Cagli dove si è mantenuta in amicizia coi suoi vecchi professori, più ovviamente ripetizioni di latino e greco in nero e una borsa di studio per un dottorato in Sociologia in arrivo, beata lei. But I try, mormorerà Luca. I try. E non combinerà un cazzo.
Angela, una delle bibliotecarie, si tira dietro la lastra di ferro bianca ridipinta di recente del cancello, Luca la oltrepassa, supera la sequenza di porta a vetri e porta automatica, ed eccolo nell’ala destra ristrutturata, proprio là dove una volta era la sua classe delle elementari, e dove ora si apre invece lo stomaco dilatato di un enorme spazio vuoto, bianco, di respiro aeronautico, riempito dai tavolini rotondi e dalle sedie rosse del piccolo bar interno nonché da un pianoforte a coda (chiusa) in un angolo, vicino alle forme cubiche di un divanetto in pelle nera.
Tempo due ore e arrivano i Giullari, pensa Luca, e si piazzano lì a ridere con Emiliano che gli porta il caffè e a non fare un cazzo tutto il giorno come ogni giorno. Pure loro, aggiungerei io, ma Luca non lo aggiunge, e invece si avvia al piano di sopra superando la sezione dei libri per bambini e salendo la scalinata interna. Getta un’occhiata fuori dalla finestra e riconosce sul limite di piazza Amiani lo schienone di Gaijin in un piumino blu dei primi anni duemila, in testa un cappello di lana giallolercio: beve qualcosa da quello che sembra un vasetto di yogurt grande, non si vede bene da lì, e intanto guarda un video sulla superficie crepata di uno smartphone, probabilmente un anime, appoggiandosi coi gomiti sul parapetto in cui il terrapieno della piazza si solleva appena sopra l’incrocio fra il Corso e via Arco d’Augusto, traversato a passettini da pensionati e casalinghe, gli unici in giro alle dieci del mattino, di giovedì. Si trova quindi un po’ più in alto di loro, il nostro Gaijin, sopra un muretto che dal basso, a passarci davanti, è tappezzato di pubblicità e manifesti di morti, compra X, defunto Y, e se ne sta appoggiato allo stesso modo sopra i nomi delle cose da acquistare e di quelle da buttare via, automobili e cadaveri, senza badare a chi passa ma solo al suo anime nello schermo crepato del telefono, probabilmente porno, e anche volendo non potrebbe guardare nessuno dall’alto, non Gaijin, visto che anche lui, tutti i giorni, non fa un cazzo tutto il giorno, e sta più in basso di tutti.
Al piano di sopra, Luca segue le insegne rosse delle stanze alla sua sinistra, M7, M8, M9, M10, attraversando il corridoio luminoso e vuoto con le postazioni computer spente alla sua destra. Poi entra in M9: la sua cabina equipaggiata con riviste d’arte e fotografia. Gli piace pensare che sedersi in quella stanza abbia qualcosa a che fare coi suoi cinque anni di studio in Beni culturali, perché il suo ufficio da organizzatore di mostre e eventi se l’era immaginato un po’ così, quando ancora diceva di voler diventare un organizzatore di mostre e eventi, solo per scoprire che all’università nessuno ti insegna a organizzare né mostre né eventi. Certo, qualcosa avrebbe potuto organizzare lui, magari da solo. Ma non l’ha fatto. O forse lo ha fatto e gli è andata male, non lo so: certi ci provano sul serio e finiscono qui dentro lo stesso. So però che in M9, di solito, a quell’ora del mattino si ritrova solo, e può sfangarsi i primi momenti della sua giornata (per così dire) lavorativa, sfogliandosi un «Art e Dossier» – ma oggi no: non può perché, dopo aver appeso il cappotto alla sedia di fronte alla sua scrivania, mentre già incomincia a disporre il necessario per dare un’impressione di produttività, computer cuffie cavi e cazzi vari, Luca sente dietro di sé i soffici passi di qualcuno, e poco dopo vede entrare una ragazza, o una signora, è difficile dirlo.
La conosce di vista. È una delle “amiche grandi” di Matilde, o almeno lo era quando facevano il liceo insieme e Matilde era fisicamente piccola rispetto alle sue amiche con qualche anno in più. Se non ricorda male, dovrebbe essere una di quelle della pallavolo, e quindi, nella sua memoria, una ragazza, ma allo stesso tempo la inquadra anche come una delle camminatrici col passeggino che qualche volta si vedono nei paraggi del Conad vicino alla piazza, e quindi, nelle sue impressioni, una signora. Sempre con lo stesso cappotto nero di lana morbida, con un colletto sciallato basso e una cintura di tessuto senza fibbie né fori che lo fa sembrare un po’ un accappatoio, e che lei si stringe spesso sul petto, come avesse un po’ di freddo. Luca non l’ha notata così spesso, ammettiamolo. Più che altro, si tratta per lui di una di quelle apparizioni periferiche che per qualche motivo tendono a ripetersi nel corso delle giornate, e che solo nel momento della loro ricomparsa lo costringono a ricordarsi di loro, in questo caso, cioè, a ricordarsi del viso largo della ragazza-signora, con lo zigomo alto e l’occhio affilato, azzurro e un po’ a mandorla.
Io conosco benissimo il viso della ragazza-signora, e sicuramente posso parlarvene meglio di Luca, riportandovi la mia esperienza diretta, perché questa ragazza-signora la incontro spesso anch’io, al Conad, così come altrove, al mare, per esempio, o lungo il Corso, un po’ dappertutto insomma, anche se non ho idea di chi sia e del perché la noto certamente più di quanto non faccia Luca. Va detto che la ragazza-signora è una di quelle persone che occhieggiano e, in quanto occhieggiano, tendono a rimanere impresse. Mi sono spesso domandato la ragione di quegli occhieggiamenti, e ho concluso che in tutta probabilità mi guarda così perché anch’io vado a spasso principalmente da solo, oppure perché abbiamo conoscenti in comune e qualcuno le ha raccontato pezzetti della mia storia, come fanno un po’ tutti, e forse anche una delle pazzie che ho fatto, che sono poche ma memorabili, o in generale perché deve aver capito, o cominciato a immaginare a partire da questi resoconti, che genere di persona io sia, e a quale grado di intensità debba vivere ogni momento solitario di ogni mia solitaria giornata, quando scelgo la mia bevanda per il pomeriggio nel reparto frigoriferi e levo gli occhi dall’immagine computerizzata di una fragola troppo perfetta stampata su una bottiglia di plastica e, vedendo lei che si stringe il cappotto-accappatoio sul petto, forse infreddolita proprio dall’aria secca pressurizzata effusa dal reparto frigoriferi ora trasformato in un’estensione aeromobile di una cabina in cui, una notte, attraverso una folla di passeggeri-fantasma, avrò acceso su di lei il mio sguardo radioattivo, la trovo già lì che mi guarda, come se fosse stata lei a riconoscermi per prima, come se fossi stato io la presenza periferica nel perimetro delle sue giornate e non lei nel perimetro delle mie, come se fosse stata lei ad aver immaginato chi sono io e non il contrario, non io a pensare che le pesi, magari per noia, la vita che si è scelta, il marito con cui vive, il fatto che avrebbe voluto essere altrove, alle tre del pomeriggio, piuttosto che dentro il Conad vicino alla piazza della stessa città in cui è nata, a guardarmi scegliere cosa bere.
Ma l’importante è proprio che questa ragazza-signora, stamattina, giovedì, vada a sedersi in M9 assieme a Luca, occupando da sé l’isoletta disabitata di due tavoli di fronte a quella, più ampia, di quattro, a cui siede lui, per ora solo, e sollevando il viso dal tablet proprio per lanciargli una delle sue famose occhiate, che a questo punto mi costa un po’ far assomigliare a quelle lanciate a me dentro il Conad (ma, siamo onesti, anche Luca non è da buttar via), le occhiate di cui parlavo poco fa, e su cui potrei dilungarmi ancora un po’ spiegandovi che con quelle occhiate è lei, di nuovo, a voler dire per prima che vi siete già incontrati da qualche parte, che potrebbe avervi visto, una sera, che so, da un balcone, camminare lungo la via di casa sua, magari romanticamente a tarda notte, che potrebbe avervi visto dall’alto della sua solitudine casalinga e aver pensato a voi, occhiate insomma di cui potrei continuare a parlare, non fosse che mi infastidisce un po’ pensare che le abbia ricevute anche Luca, peraltro impegnato in una serie di gesti totalmente prosaici, come attaccare la presa del computer cercando di non fare troppo rumore, fallendo nel tentativo. Oppure no, ecco, ce l’ha fatta. Il filo è a posto, la spia sul caricabatterie si illumina.
Luca si sistema alla sua postazione ben organizzata, intento a mostrare alla ragazza-signora di non essere uno che ha tempo da perdere, lui, no, la sua agenda è piena di impegni, la sua home di Facebook ha una serie pressoché illimitata di post importantissimi da studiare a fondo. Non che il distrattissimo Luca riesca a processare parole scritte, in questo momento. Non ha nessuna intenzione di leggere per davvero nemmeno una delle quattro email che dall’accensione del pc gli vengono notificate dall’icona azzurra a forma di lettera in fondo al desktop, perché sa di avere delle speranze per quelle email e per il loro contenuto, come ogni giorno, perché ogni giorno si siede e prega la sua preghiera moderna, tanto più tragica per il fatto di essere mormorata in silenzio e senza il supporto di alcuna istituzione religiosa credibile né l’ascolto effettivo di qualche divinità; spera, dicevo, che dal cielo, fra tutto l’inutile spam e le email di rifiuto, ci sia almeno un messaggio inviato da qualcuno interessato a parlare direttamente con lui, non tanto ad assumerlo, ma almeno a parlare di lavoro. Almeno per capire se sta sbagliando qualcosa. No, meglio non aprirle ancora. Se lo facesse, come ogni altra mattina, perderebbe la forza di posare di fronte alla ragazza-signora: di sicuro affiorerebbe, dietro la facciata di concentrazione da businessman, il sincero scoraggiamento dei suoi eterni giovedì. E questo scoraggiamento, come gli ha fatto notare Matilde, non deve mai affiorare. Deve tirarsi su! È per quello che nessuna se lo fila! Ha un’autostima troppo bassa! Come? Bassa. Al secondo o terzo Negroni al Bar delle Arti con Matilde e Mariachiara, detta Machi, che però si era unita dopo e stava sorseggiando pianino solo il primo bicchiere di vino bianco ascoltandoli sproloquiare, si è sentito dire: te stai male! Stai male con te stesso! Luca non aveva mai avuto questa impressione. Da fuori si sente! Luca da dentro non se ne era mai accorto. Una ragazza lo sente! Luca non è una ragazza, Matilde sì – ma in quanto sua amica, in teoria dovrebbe essere dalla sua parte quando si tratta di avventure amorose, e confortarlo invece di demolirlo. Okay, si era limitato a dire Luca. L’unica parola che avesse la chiarezza di concepire al terzo Negroni. Okay. Cazzo.
Non aveva aggiunto altro per quella sera, ma gli era rimasta impressa questa idea di poter avere davvero poca stima di sé a propria insaputa, che per lui è l’aspetto più inquietante, non tanto perché potrebbe significare di avere in sé una o più personalità estranee attivamente all’opera per sabotargli la vita, ma più che altro perché secondo Matilde questa supposta mancanza di autostima può essere subodorata dalle ragazze, e Luca ci tiene a piacere alle ragazze. Ma per poter piacere ci vorrebbero un sacco di cose. Prima di tutto un lavoro. Poi una macchina, perché senza macchina dove la porto la mia ragazza? Dove la porto una come la ragazza-signora, a cui di certo piacciono le cose un po’ sofisticate? Che poi, sarà vero? Che tipo sarà? Farà ancora pallavolo? E dov’è il figlio (Luca lo immagina maschio perché fatica a immaginare cose che siano diverse da sé stesso) che porta in giro col passeggino? Avrà litigato con il marito? Magari è un po’ che se lo tiene dentro e finalmente gli ha detto quello che pensa? Che non le piace affatto stare a casa, e che vorrebbe poter fare qualcosa anche lei? Che non è vero che si lamenta in continuazione anche se lui si spacca il culo tutto il giorno? Che non lo sa, non lo vede che le cose non sono più come prima? Che, sì, forse c’entra proprio la pallavolo, in cui magari avrebbe potuto fare carriera? Che non ci ha mai pensato a cosa voleva fare, ma ora che ha un figlio e tutte le possibilità di cambiare vita sono chiuse per sempre, improvvisamente non pensa ad altro? Che forse è meglio se oggi la lascia perdere? Forse ha chiamato una sua amica del liceo, come Matilde, per tenerle il bambino per qualche ora mentre lei va… dove va? Qui in M9, con il suo iPad e il suo quadernino, qui nell’ufficio immaginario di Luca dove lui potrebbe cominciare a parlarle di quei due o tre pittori e fotografi che conosce perché qualcuno lo ha costretto a studiarli o perché ha finito per impararli per necessità ambientale, come i nomi sui citofoni lungo la via di casa?
La ragazza-signora, forse disturbata dalla vibrazione telepatica delle domande profluenti nella testa di Luca, si alza, lasciando al tavolo tablet e quadernino, e esce dalla stanza. Luca non dispera: sarà scesa a prendere un caffè, pensa, e questa è un’ottima cosa per almeno due motivi, ovvero, primo: perché ogni giornata lavorativa che si rispetti deve innanzitutto passare al varo di una bella pausa caffè; secondo: perché se è davvero scesa a prendere un caffè, allora per lui si presenta la migliore e più inoffensiva occasione di attaccare bottone, e cioè quella della chiacchiera da caffè al bancone del bar di prima mattina, che unisce l’utile del caffè al dilettevole della chiacchiera socialmente accettabile con sconosciuti di sesso opposto, fatta di commenti sull’utilità del caffè, appunto, in giornate di studio e lavoro e intensa meditazione, nonché altre simili carinerie che seguano le ridondanti regole del galateo locale. In questi casi bisogna saper essere strategici, e Luca lo è sempre stato, o almeno ha sempre cercato di esserlo, con risultati alterni, quando si tratta di donne. Più precisamente, bisogna aspettare, secondo le complesse strategie di Luca, almeno cinque minuti prima di scendere, per non dare un’impressione di inseguimento o caccia aperta o comunque per non lasciare dubbi sull’aspetto incidentale dell’incontro, perché la non-incidentalità, ovvero l’intenzionalità, implica sempre un’attrazione dichiarata da queste parti, e da queste parti il dichiarare attrazione non è considerato strategicamente efficace o savio, non so, non ho mai capito perché si facciano le cose così onestamente, forse perché non sono di queste parti e non mi sono mai fatto tanti problemi a prendere il caffè con gente che non conosco.
Luca credo se ne faccia un po’. Scaduti i cinque minuti lascia M9, percorre il corridoio al contrario, poi le scale, e sbucando nella grande sala aperta si accorge che non c’è nessuna ragazza-signora ad aspettarlo appollaiata su uno sgabello rosso al bancone del bar, pensosa come l’aveva immaginata scendendo, no: c’è solo Emiliano che sta servendo un caffè americano a Angela, la bibliotecaria del cancello, facendo tantissima attenzione a non rovesciarlo perché ha riempito un po’ troppo la tazza, e che vedendo Luca, dopo il solito attimo in cui sembra faticare a riconoscerlo, si illumina tutto, tutto contento, e lo chiama per nome.
«Luca! Vuoi un macchiato? Un macchiato… come al solito?»
Emiliano ha un modo un po’ strano di parlare, più lento del normale. E deve sempre trovare il modo di inserire il nome proprio del suo interlocutore nella frase, come se dovesse pensare molto bene a ciò che dice ogni volta, rievocando i nomi uno per uno e ripetendoseli in testa per essere certo di non averli dimenticati. Allo stesso modo, tutti i suoi movimenti sono torpidi e misuratissimi e tuttavia, per qualche ragione, anch’essi sempre sul punto di sfuggire al suo controllo. Muoversi e parlare correttamente sembrano richiedergli più sforzo di quanto non ne richiedano, per esempio, a Luca, che non saprebbe bene come classificare la lentezza di Emiliano se non dicendo frasi tipo: è un po’ lento – laddove i suoi coetanei più cattivi, soprattutto se forti della loro normalità percepita di gruppo coatto, degenerata peraltro per ragioni tribali nella solita normatività, si sbottonerebbero in un più classico: non è a cento.
«Vabbè dai».
Prendiamoci questo caffè, si dice Luca, se non è qui la ragazza-signora sarà andata in bagno o fuori a fumare, se fuma, e nulla esclude che possa arrivare tra qualche minuto. Come se gli avesse letto la parola “fumare” nel cervello, Emiliano comincia a parlargli di fumare e di tabacco, mentre Luca si sistema sullo sgabello e la bibliotecaria a fianco a lui scorre il telefono per non partecipare alla conversazione.
«Allora, come va? Come va con le sigarette, Luca?»
«Embè. Ancora resisto».
«Dai, dai, tieni duro. Tieni duro, Luca!»
«Tengo, tengo. Avrei una voglia, però…»
Luca mente: non è mai stato un gran fumatore, e io lo so, da fumatore. Ha smesso perché le sigarette costano troppo, che non è mai un buon motivo per smettere, se si fuma davvero. Emiliano per qualche ragione si è preso la faccenda a cuore e chiede continuamente aggiornamenti sullo stato della supposta dipendenza da nicotina di Luca e lo incoraggia come se la sopravvivenza del suo cliente dipendesse dal tenere duro nonostante quello stato di languore generalizzato, fisico, che caratterizza l’astinenza e che si spande non solo dagli occhi, dal naso e dalla bocca, che sentono per primi la mancanza della sostanza in questione, ma dalla superficie stessa della pelle, tutta tesa, dilatata come se volesse succhiare la sostanza in corpo distillandola dall’aria attraverso lo sbocco spalancato dei pori, il tutto mentre il corpo soffre orribilmente questo trovarsi isolato nel sobborgo di sé stesso mentre fuori l’atmosfera sembra tutta brulicante e gravida di piacere chimico accessibile solo agli altri, ma non a te.
Luca non è troppo bravo a stabilire connessioni fra le cose, quindi non si è mai domandato davvero se possa esserci qualche legame tra come Emiliano si muove e parla e quel suo insistere sul resistere, per così dire, nonostante Emiliano gli abbia detto molte volte, e lo stia facendo anche ora, mentre Luca prende il primo sorso amaro di macchiato, con la solita voce che arranca un po’, che quando lui aveva cercato di smettere certe cose se le sognava la notte, io me le sognavo la notte, dice così, e descrive questa scena in cui sogna di svegliarsi, mai a casa sua e sempre molto presto, in quelle ore in cui non c’è ancora luce ma il cielo acquista un’inquietante fosforescenza cosmica prima che vi esploda il sole in mezzo, così racconta, e ha una gran fame, una gran voglia di fare colazione, o, più di preciso, una gran voglia di un bicchiere di latte caldo perché si sente ancora addosso il freddo della notte, come se avesse dormito in tenda, e in certe versioni del sogno dorme davvero in tenda e a volte persino per strada, su una panchina di una fermata dell’autobus, e si sveglia a causa dei brividi troppo intensi o del rumore dei denti che battono troppo forte schioccandogli nel cervello col trillo di una sveglia di ossa vuote, e subito sente di volere un bel bicchiere di latte caldo, come se il suo corpo non avesse bisogno d’altro che del calore di quel succo biologico per reintegrare qualcosa di essenzialmente perduto, e a quel punto, tremando e spesso stringendosi nelle braccia per scaldarsi, nel sogno, Emiliano si avvia alla ricerca del suo latte per le vie di una di quelle campagne del nord Italia che in virtù del loro essere pianeggianti si innervano sempre più di strade, fabbriche sparse, concessionari d’auto e case a schiera slegate da tutto, senza tuttavia diventare città e assumendo pian piano la forma di periferie non si capisce bene di che cosa, di satelliti gravitanti attorno non si sa quale pianeta abitato, ma lungo cui, viste le distanze, la gente non si avventura mai a piedi, men che meno la mattina presto, come fa Emiliano nel sogno, quando sotto il cielo grigiazzurro brillano ancora i lampioni accesi che si spengono man mano che lui avanza in cerca dei bar in cui potrebbero servirgli un bel bicchiere di latte caldo, che a questo punto non è più latte caldo, nel sogno, ma qualcosa che dallo stomaco dovrebbe spandersi direttamente nelle vene, direttamente nel cervello. Questi bar, però, non esistono, in zone del genere: queste non sono le vie del centro.
Ascoltare i sogni di Emiliano mette sempre Luca di cattivo umore e gli fa tornare in mente una fotografia degli anni novanta della cui esistenza avrebbe dubitato, se gliel’avessero descritta senza mostrargliela direttamente, come ha fatto Emiliano. Perché sì, va bene, Emiliano è anche un bell’uomo e porta bene i suoi quarant’anni, alto, abbronzato, un po’ massiccio forse e con un po’ troppa pancia ma con un bel viso allungato e dolce, con una bella fila di denti dritti che sembrano finti e ancora tutti i capelli in testa, però questa cosa che a quindici o sedici anni aveva fatto il fotomodello a Luca sarebbe sembrata davvero poco credibile, non fosse che esiste una foto a dimostrarlo con dentro un giovane Emiliano che sfila in una specie di completo attillato sperimentale, argentato, da astronauta, che mette in risalto le forme di un corpo atletico e sottile, mentre lui guarda in alto a destra, al di sopra di tutti, col mento sollevato verso qualche astro da visitare fuori dall’inquadratura della fotografia. Ora, se questa foto esiste, si domanda Luca, come siamo arrivati all’Emiliano attuale? Come passa un giovane attraente e di successo dal camminare lungo una passerella spaziale sopraelevata al centro delle pupille contratte di tutti al vagabondare coi denti che gli si spezzano in bocca per il freddo in qualche periferia sconosciuta, in cerca di latte caldo, e poi qui, in mediateca, nell’esilio di questi infiniti giovedì, di queste mattinate passate a guardar passare il tempo al bancone di un bar quasi sempre vuoto? Luca se lo domanda, ma non si risponde: si limita a lasciarsi scorrere in mente l’impressione che l’Emiliano che ha di fronte sia composto da due Emiliani, il modello della fotografia e il vagabondo del sogno, e che la voce e la storia del primo corrano sotterraneamente dentro la scorza tremante del secondo, animandola in quei gesti maldestri, in quel porgere le tazzine di caffè con tutte e due le mani, in quel parlare piano, una parola alla volta, ripetendo tutti i nomi propri per paura di dimenticarseli. Emiliano gli sorride coi suoi denti drittissimi in plastica di bambolotto, coi suoi occhi bovini un po’ appesantiti dalla gentilezza veramente profonda, veramente illimitata che hanno certe volte gli occhi delle persone che soffrono senza mai raccontare perché.
«Resisti, dai. Resisti, Luca».
Come si diventa Emiliano? Luca ha finito il caffè, lo ringrazia, ma non scende più a fondo di così. Io potrei raccontarvi, ovviamente, tutta la storia di Emiliano, perché me l’hanno raccontata. Ma siccome ogni tanto mi offre il caffè e gli voglio bene, preferisco non farlo. In fondo sono cazzi suoi.
Tempo di salutare Emiliano e tornarsene di sopra per un salto rapido al bagno. Fuori da M9, il corridoio è andato riempiendosi, per modo di dire: c’è una signora anziana con la spesa che, aggiustandosi gli occhiali, accede agilmente alla sua posta elettronica da uno dei computer pubblici, e un pensionato in coppola e cappotto lungo che scorre con lo sguardo i titoli della sezione gialli esposti in corridoio. Il bagno è sulla sinistra, la porta dà in faccia a uno scaffale con le novità di poesia. Luca entra e, siccome fra i due gabinetti disponibili quello di destra è occupato, va a sedersi comodamente sul water dell’unico libero. Nel gabinetto di destra sente srotolare carta igienica, poi nulla. L’altro non sembra volersene andare. Luca è un po’ a disagio a condividere l’intimità del defecare con un estraneo, anche se separato da una parete, ma non può farci niente. Prende lo smartphone e comincia a scrollare la home di Facebook nella tranquillità di quattro pareti grigie, proprio come stava facendo poco fa al suo tavolo, ma senza la pressione dello sguardo di nessuna ragazza-signora: vede facce di amici e amiche, vede le sue vecchie foto di laurea, vede una pubblicità di divise militari tedesche della seconda guerra mondiale, vede un video senza audio di una lite fra sconosciuti, vede l’ennesimo articolo di puro panico per il fatto che due giorni fa la star di un reality show abbia vinto le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, vede tutto questo senza farci troppo caso.
Ora, io non so davvero cosa stesse pensando Luca in bagno, siamo onesti. Non ero mica lì per chiederglielo. Nessuno lo sa. Soprattutto quando una persona è in bagno, poi, dobbiamo rassegnarci a non sapere che cosa pensa. Però, come Luca, anche io ho trascorso in mediateca molti giovedì, e posso dire con certezza che la combinazione fra la clausura e la mancanza di occupazioni giornaliere rende quasi impossibile sopprimere quel genere di fantasie che la nonna di Luca catalogherebbe come “farsi dei viaggi”, e in questo caso non dei bei viaggi, come dimostrano certi sommovimenti della fronte, certe contrazioni della zona tra le sopracciglia, abbassate a saracinesca per arginare, appunto, la forza propulsiva di qualche viaggio incominciato contro la volontà di Luca. Se dovessi indovinare, la maggior parte di questi brutti pensieri potrebbe avere a che fare con la sua situazione presente, ovvero il trovarsi solo in biblioteca e non avere granché da fare, perché Luca non mi pare proprio il tipo da stare troppo a preoccuparsi per il futuro o a rimuginare sul passato. Se prendiamo la ragazza-signora, per esempio, dopo averla vista andar via, poco fa, e aver dilatato un pochino le narici per sentire di cosa profumava, non è che Luca abbia passato il tempo a domandarsi di che cosa profumasse. Giusto per correttezza: vorrei specificare che l’odore della ragazza-signora, almeno per come l’ho sentito io, ricorda quello di certe saponette semplici da albergo, incartate nella plastica e lasciate sopra lavandini lindi appena lucidati da mani anonime per accogliere il prossimo viaggiatore di passaggio. Non mi intendo di prodotti di bellezza femminili, ma forse dovrei occuparmene un po’ di più o almeno cercare di conoscerne con più precisione gli ingredienti, visto che al mondo non c’è quasi nulla che mi faccia venire in mente immagini precise come l’odore dei saponi e degli shampoo, molto più stimolanti per me dei profumi, forse per il fatto che tutti si lavano ma non tutti usano profumi, e che il profumo tende a sovrapporsi all’odore naturale di pulito che hanno la maggior parte degli shampoo e dei saponi. Mi basta coglierne anche solo una sfumatura lieve, camminando, e associarla, anche solo vagamente, a una faccia, a una pettinatura, a un capo di vestiario, per allucinare intere famiglie, intere case, interi quartieri e a volte anche città e paesi con una rapidità tale da sopraffarmi del tutto e farmi perdere la presa sulla realtà e sulle operazioni che vi sto conducendo, come se la prospettiva del cannocchiale della percezione tutto a un tratto si rovesciasse e ciò che fino a poco prima era sembrato grande, concreto, solido, presente all’occhio e al tocco come materia di fatto, improvvisamente fosse stato scaraventato a una lontananza irraggiungibile, mentre tutto ciò che fino a un attimo prima era meramente periferico, nella coscienza, ovvero il mondo della vividezza pulsante dei colori, della qualità piuttosto che della quantità e struttura delle percezioni, insomma degli odori, dei rumori, delle forme e di tutte le cose accatastate come secondarie nei ricordi dei fatti accaduti o nelle fantasie di quelli ancora da venire, diventasse invece di colpo presente, espandendosi dai margini della coscienza verso il centro delle cose percepite qui, ora. E il paradosso, per me, è che quando ciò avviene, ovvero quando nella mia coscienza il periferico si ritrova a occupare tutto il fuoco dell’attenzione, per associazione mi sorprendo a immaginare delle periferie, periferie in cui non ho vissuto o in cui non credo di aver vissuto e forse, sì, periferie in cui devo effettivamente aver vissuto, perché il mondo dopotutto è un luogo assurdamente grande, anche se nel concentrarci sul vicino ce ne dimentichiamo spesso, un luogo in cui tutto finisce per essere una qualche periferia di qualcos’altro, prima o poi – vedo, quindi, come dicevo, periferie di città che potrei aver visto solamente nei film, alcune sporche, morte, spente, ed altre vive, accese, attive, alcune calme, alcune no, alcune grigie, come vuole lo stereotipo, ma anche alcune verdi e gialle e marroni, e anche, molto e più di quanto non vorrei, rosse, e infine alcune, molto rare ma indimenticabili, azzurre e blu, le più belle, di solito legate agli odori biancovattati dei saponi da bucato della più semplice foggia possibile, l’odore delle saponette bianche acquistate in blocchi a meno di un euro l’una, e per qualche ragione anche a quello della ragazza-signora, il cui odore è dappertutto sul suo cappotto-accappatoio nero e mi fa venire in mente le periferie dei paesi balcanici ma anche della Cina e del Giappone, fatte di blocchi intercambiabili che ridefiniscono il paesaggio col passare delle epoche e facciate composte in scacchiere irregolari di balconi, finestre chiuse e aperte, lenzuola stese e ventole di condizionatori, con due differenze rispetto alle foto di queste periferie che chiunque può trovare in rete, e cioè che qui i fili del bucato costituiscono una rete che lega balcone a balcone, e che il cielo è sereno ma ha appena piovuto, ogni volta, nella mia fantasia, il che significa che tutta la periferia è ora, e per qualche ora al massimo, cosparsa di specchi che riflettono nel frammento ampio di una pozzanghera o in quello infinitesimo delle zigrinature dell’asfalto, o ancor più lievemente sui balconi o sulle patine umide che fanno somigliare i palazzi a sculture di vetro, l’azzurro dei cieli, di tutti i cieli.
Luca a queste cose non ci ha mai pensato. O forse sì, ma magari non ci ha fatto caso. E comunque non è a questo che deve star pensando in bagno, facendosi i suoi viaggi, che secondo la mia opinione dipendono dalla sua solitudine e da qualcosa che l’ha inquietato nel ricordarsi dei sogni di Emiliano e della foto di Emiliano e della possibilità di ritrovarsi ancora qui a quarant’anni come Emiliano, qualcosa di peraltro amplificato nell’errore prospettico generato dallo scrollare il feed di qualsiasi social network, per cui ci si crede soli mentre tutto il mondo ci scorre innanzi nella coralità incontaminata e limpida di un flusso unico di vite e di sorrisi, generando una dicotomia insolubile fra l’osservatore e tutti gli altri, fra Luca e il chiassoso teatro della vita come accade, tutta intera, fuori da Luca, archiviata e registrata in post e pixel, anche se forse l’espressione “dicotomia insolubile” è un po’ forte, per Luca, che starà avvertendo più che altro un lieve senso di disagio all’idea di trovarsi isolato mentre tutti i suoi amici e le sue amiche vivono vite eccitanti negli altri giorni della settimana che non sono i suoi giovedì in mediateca e in questo bagno dove il secondo caffè della giornata gli spinge la cena di ieri fuori dalle budella. Tutti si trovano al centro di qualcosa tranne lui, che invece è lì, nel bagno di una mediateca che non merita neanche un nome da quanto è periferica rispetto a tutto ciò che di bello e luminoso e glitterato accade nelle vite altrui come gli appaiono dall’oblò dello schermicino del suo smartphone, come mostrano le foto di Matilde col ragazzo a Berlino, o quelle di Mariachiara che se la spassa circondata dalla cricca di colleghi infermieri suoi compagni di università, mentre lui, pur col suo titolino di dottore, sente di essere un niente al centro di un niente, come non è al centro di niente gente come Emiliano o i senzatetto che passano al bar della mediateca per pagarsi il caffè del giorno e un panino coi due o tre euro che sono riusciti a racimolare, e che, come Gaijin, certe volte non riescono neanche a parlare. Saranno arrivati pure loro da chissà che buco in est Europa, e magari avranno faticato, come Gaijin, a impararsi persino quel poco di italiano sbiascicato in cui ogni tanto cercheranno di conversare mangiandosi le sillabe alla fine delle parole.
Luca, quindi, si paragona agli altri e ne soffre. Vuole un lavoro da qualche parte. O anche solo che gli succeda qualcosa di interessante per poter postare i suoi post anche lui. Oppure ancora, anche senza post, sarebbe contento di fare almeno due chiacchiere con la ragazza-signora. Ed ecco che qui il viaggio che si sta facendo Luca entra nella sua metà ascendente: lo so perché anche io ho pensato molto alla ragazza-signora nel suo cappotto-accappatoio, e so che certi giovedì il tempo non passa e i viaggi che si intraprendono nella propria testa possono prendere una piega un po’ patetica, da cui, per tirarsi su, non c’è nulla di meglio che immaginarsi tutta una serie di storie possibili con una ragazza o una signora, e tutta una serie di frasi possibili per dare inizio a quella storia in cui entrambi di certo sarebbero stati riscattati dalle noie delle rispettive vite, lui dai commenti dolorosi di Matilde e Mariachiara e dalle email di rifiuto e dalle cene passate a rispondere a bocca piena alle domande dell’Eredità, e lei da un’ipotetica quanto insoddisfacente vita coniugale. Il viaggio di Luca si sviluppa seguendo una combinazione di cattive abitudini di pensiero e cattivo uso di internet, e dell’ancor più cattivo collante di entrambi, ovvero quel genere di pensieri originali che germogliano nel soliloquio di giornate in cui non si incontra nessuno, di fantasie pericolanti che sopravvivono, anonime e filtrate, tanto nelle credenze popolari dei professori di liceo quanto nei post di gruppi Facebook di amanti dell’antichità, dell’esoterico, dell’occulto, del classico, del medioevo o anche solo delle biciclette d’epoca, come pure dell’economia, della scienza, della fantascienza e delle pseudoscienze in cui tutte le scienze si trasformano passando da un libro a una pagina internet, cioè le fantasie di idilli fasulli, passati o futuri, a cui ci si appiglia per sfuggire alla necessità di dover stare qui, in mediateca, come ogni giorno. Fantasie di mondi passati a cui seguono necessariamente fantasie di presenti decadenti e olocausti futuri, fantasie, quindi, di bene e male, di buoni e cattivi, di migliori e di peggiori, e in cui i peggiori sono peggiori perché ci sono nati, non diventati: vedi Gaijin, che secondo i principi inattaccabili della frenologia di internet, avendo la fronte così ritratta mostra chiaramente tratti primitivi, un abitante delle caverne col suo viso tagliato in orizzontale da un monosopracciglio che fa pensare a un tentativo di cancellatura della penna di Dio su un essere umano malriuscito, lo strabismo accentuato dell’occhio sinistro, il naso schiacciato, le labbra spesse. Da dov’è che viene? Albania? Croazia? E infatti lì, se non sbaglio… Ma, se stesse pensando davvero tutto questo, Luca sbaglierebbe senza dubbio su tutto: sarebbe come se ci mettessimo qui, in bagno, a sindacare sulle origini della ragazza-signora, come se ci mettessimo a dire che i suoi genitori non sono di qui perché lei ha il viso largo e gli zigomi che sembrano scolpiti da venti molto più forti delle nostre gentili brezze marine, venti che spazzano le pianure immense dell’Asia centrale o che capitombolano giù dal Caucaso su popoli che abitano ai piedi delle montagne e su quelli che cavalcano per steppe di paesi immensi tracciando linee rosse lungo il globo come nei vecchi montaggi di viaggio dei film, linee rosse tra cui almeno due, quelle degli antenati della ragazza-signora, a un tratto devono essersi intersecate sul limitare di qualche altopiano non diversamente da come io e lei ci siamo incontrati per la prima volta quassù, in un giovedì precisamente identico a questo, in un contesto e una giornata strutturati proprio come questa, ma soli, soli e sopraelevati come abitanti di un mondo nuovo, così noi nel vuoto dei corridoi del primo piano, vuoto di M7, M8, M9, M10, nell’assenza ieratica persino dei bibliotecari per lasciare che si celebrasse il rito del nostro incontro e in quella dei passanti lungo le vie e dei cittadini nelle case e via fino al cerchio circostante di mari e colline, tutti lontani per permettere l’incontro delle due linee rosse, ragazza-signora e ragazzo-signore lì al centro di raggi di pianeti allineati per noi soli. Eccoci così: M9 è un tempio di pietra vivente. Lungo le pareti respirano i fasci di luce gelida delle tre del pomeriggio, slittano incogniti e lenti lungo le superfici, dilatando i pori del legno delle scrivanie in maniera impercettibile, allentando la presa dei bulloni che tengono assieme gli scaffali di metallo delle librerie, rilassando la tensione plastica dei libri d’arte e di fotografia, accendendo sulle copertine skyline di metropoli mai viste e rosse stampe di deserti. C’è lei, in piedi. Ha sistemato la borsa, si volta. Si stringe nel cappotto-accappatoio. Si ferma, e ferma il sole. Sento di avere le braccia troppo lunghe. Potrebbe dirmi…
«Goshujin-sama, yamete kudasai!»
No, non questo. Di certo non questo. Di certo non lo squittio giapponese di qualche ragazza a due dimensioni sul punto di essere violentata, di certo non questo con l’aggiunta di mugugni e bestemmie da parte di chi si è fatto scappare certi rumori dal suo smartphone crepato oltre la parete divisoria del gabinetto. Luca si alza, si pulisce con una palletta di carta igienica, sciacquona tutto e se ne va senza lavarsi le mani. Avrebbe quasi voglia di fuggirsene a pranzo in anticipo, ma gli è passato l’appetito immaginandosi Gaijin che si tira una sega nel bagno a fianco.

***

«Non si saluta più?»
Dopo pranzo, in una M9 freddina, fra Luca e una ragazza-signora tornata al suo tablet e quadernino, esordisce Sesamo. Bassetto, capello la cui lunghezza cresce in proporzione a quanto diradato si fa il pelo sulle tempie, cappotto rigorosamente blu scuro e stranamente elegante, sciarpa pure al di sopra delle sue possibilità (cachemire verde?), sotto cui si cela la sua vera natura di magliettaro con riferimenti postironici a qualche meme che solo lui capisce, o a qualche gruppo industrial che solo lui ascolta o ascoltava da giovane. Sesamo ha di sicuro concluso i suoi giorni da studente, se ne ha mai avuti, ma non è ancora un vecchio. Non lo sa nessuno, quanti anni abbia. E oggi pomeriggio costringe di nuovo Luca a contemplare il mistero della sua età indefinibile piazzandoglisi davanti e tagliando la linea visiva che lo legava alla ragazza-signora. E vabbè.
«Oggi ti vedo un po’ consumato. Consunto».
Sesamo ha un modo tutto suo di scandire perfettamente le parole, un po’ come i doppiatori delle serie tv, esprimendosi in un italiano correttissimo, tranne quando decide, per necessità scenica, di fare altrimenti.
«Eh…? No no, sto bene, tutto bene. Cioè, è giovedì. Non ce la faccio più».
«La vita è fatta anche di questo».
Di Sesamo si deve anche dire che è una di quelle persone dall’ottimismo disperato e inossidabile che preserva chi alla sua età (qualunque essa sia) ha ormai preso la decisione definitiva di vivere di espedienti. Luca non sa granché delle sue attività lavorative, se non che al momento sta scrivendo tesi di laurea per quattro o cinque studenti dell’Università di Urbino. Si ricorda piuttosto le sfumature della loro prima conversazione, un paio di mesi fa, quando Sesamo, riconoscendo le note di Space Oddity da qualche falla nelle cuffie troppo vecchie di Luca, ha approfittato dell’occasione per attaccare bottone e parlare di musica, nel senso che principalmente Sesamo ha parlato di musica, elencando una serie di aneddoti esoterici su David Bowie, la sua vita sessuale, le sue abitudini con le droghe e i supposti legami con qualche frangia del nazismo occulto, per poi concludere che secondo lui Bowie non è nemmeno tutto sto granché, non è, a suo avviso, un innovatore – certo, la sua indole di trasformista è interessante e l’ha portato a cavalcare una serie di onde concentriche di musica sperimentale underground, musica che, però, a guardar bene, stilisticamente parlando è il frutto della creatività di altri, ignoti e più meritevoli di lui per aver militato in questa schiera di bardi impopolari che orbitano sempre a debita distanza dalla stella luminosa del pop.
In qualche modo durante quello scambio è venuto fuori il nome “Sesamo”, la cui origine, nella memoria di Luca, è del tutto oscura. È un nome? Un cognome? Un soprannome? C’entra qualcosa con la sua altezza? Non si sa. Non gli andava di chiederlo. Da allora le loro interazioni si sono svolte più o meno tutte sulla falsariga di un Sesamo che amichevoleggia parlando di qualcosa che crede possa piacere a Luca solo per sminuirlo al minimo cenno di interesse da parte del suo interlocutore, al che Luca, che cerca la sua musica principalmente tramite l’algoritmo di riproduzione automatica di YouTube, di solito annuisce aspettando la fine dell’energia monologante di Sesamo, meravigliato più che altro dal fatto che si possano avere così tante cose da dire su un musicista. Per il resto, della vita di Sesamo ha raccattato soltanto dettagli che non si è mai curato di rimettere insieme, quindi bisogna che vi aiuti un po’ io, che molte delle sue storie le ho sentite dal vivo.
Sesamo, sotto la maschera di una dizione perfetta, è sardo, e pare venga da una famiglia di magnati del legno piuttosto ricca. O almeno così racconta. In ogni caso, lui e la madre sono finiti qui quando Sesamo aveva ventun anni, chissà quanto tempo fa, perché dopo la morte del padre i suoi zii avrebbero cercato in tutti i modi di impedire che lui e la madre ricevessero l’eredità che spettava loro – e ci sarebbero riusciti, dal momento che i genitori di Sesamo non erano sposati. Dopo questa diseredazione forzata perdiamo le tracce di Sesamo per ritrovarlo, anni dopo, qui in mediateca a coltivare varie velleità in cui scenderemo poi più nel dettaglio: per adesso ci interessa sapere che campa di lavorini e lavoretti, leciti o meno, come lavare piatti nei ristoranti, scaricare libri per le bancarelle della fiera mensile dell’antiquariato e laurearsi in vece d’altri in tutte le facoltà disponibili all’Università di Urbino per prezzi piuttosto modici. Il pomeriggio, comunque, anche lui è quasi sempre in mediateca, e anche lui non è proprio un gran lavoratore, a causa del suo “cazzo di computer di merda”, che si blocca in continuazione, forse anche per via delle ripetute manate inflittegli proprio da Sesamo nei momenti di maggiore frustrazione.
«Quanto ca…volo ci mette ad avviarsi tutte le volte porca…»
Trattiene le parolacce in presenza della ragazza-signora, si alza, si strofina con sprezzatura attoriale la fronte troppo poco solcata da rughe per simulare stress, gironzola per la stanza.
«La tecnologia».
Declama in direzione della ragazza-signora, sperando in una risposta che funga da appiglio per un monologo, e ricevendo soltanto un’occhiata del genere “so cosa stai facendo” che incenerirebbe chiunque ma lascia Sesamo del tutto indifferente, almeno a livello superficiale. Sesamo non parla mai di amore e, se lo fa, lo fa sempre con un certo distacco, menzionando le ragazze del suo passato come menzionerebbe i titoli delle riviste in M9 che i suoi occhi scorrono a uno a uno. Da uno scaffale prende in mano la biografia di qualche musicista con un nome da colazione inglese e il corpo androgino, cominciando una chiacchierata solitaria che in altri pomeriggi avrebbe forse catturato la curiosità di Luca, sempre per motivi tangenziali (come fa ad avere tutte queste cose da dire su uno così?), ma oggi riceve in risposta solo i seriosi “mh” e “mh-mmh” di un Luca intento a mostrare alla ragazza-signora che lui non ha mai ascoltato stranezze del genere e che, anche se non ha nulla contro gli androgini, certe cose preferirebbe che le facessero a casa loro.
«Insomma, uno degli artisti più importanti della nostra epoca. Pausa?»
Sesamo fa dondolare davanti alla faccia di Luca la tentazione di un portasigarette di latta rosso e ammaccato con sopra un Mao Zedong ridente e soddisfatto dei suoi milioni di morti. Luca cerca di non guardare la ragazza-signora.
«Stiamo solo cinque minuti, però».
Anche se in teoria dovrebbe aver smesso, Luca ha davvero voglia di una sigaretta, come pure di allontanarsi momentaneamente dalla tensione immaginaria che permea la cabina piombata della sala M9. Attraversando la soglia della stanza, però, gli lampeggia per un attimo in mente l’idea di invitare la ragazza-signora a uscire in giardino con lui e Sesamo, così, per un caffè o per sfumacchiare, ecco, magari ne ha bisogno anche lei dietro alla facciata laboriosa del suo viso concentrato, magari anche lei non sta combinando granché e ha proprio bisogno di parlare, di fare due chiacchiere con qualcuno che sia fuori dal suo cerchio di conoscenze, così, per mettere le cose in prospettiva, per registrare l’attrazione gravitazionale esercitata da altre vite sulla sua e dalla sua su altre, e magari proprio su quella di Luca. Si potrebbe invitarla ma qualcosa, forse la differenza (immaginaria) d’età, o di status (celibe), o di esperienza (lavorativa, di vita), paralizza Luca a metà di un’occhiata che vorrebbe domandare ma non domanda, e resta invece così, sospesa in M9 nel fluido invisibile delle ore sciolte e inutili in cui galleggiano in cerchio i pensieri di possibilità irrealizzate. Sono le quattro e trentadue. La ragazza-signora registra quel mezzo sguardo, lancia a Luca un’occhiata rapida e torna subito al suo tablet. Chissà che avrà pensato, si chiede Luca poco prima di lasciare la stanza, seguendo Sesamo.
Scendono così, due uomini senza nemmeno una ragazza o una signora al seguito. Al piano terra passano di fronte ai Giullari, che sono finalmente arrivati: eccoli lì, i due dandy ventenni, felici e contenti sul divanetto di pelle nel salone d’ingresso, uno col tè e uno col caffè, che parlano e ridono, ridono e parlano, uno parla e l’altro ride, e viceversa, a turno, per ore. Vengono qui e si vestono tutti perbenino apposta per ridere e parlare, vengono coi cappotti lunghi e le camicie stirate, tutti ordinati, le scarpe mai da ginnastica, sempre allacciate, scelgono un tavolo al piano di sopra, M7, di solito, e vuotano lì i loro zaini, dispongono penne, astucci, quaderni, e poi se ne vanno, si piazzano al bar. Poi un tè, un caffè, un tè, un caffè, e intanto gli amici rimbalzano al tavolo, uno per uno, scendono, pausano, e solo i Giullari non salgono mai, rimangono lì, li intrattengono. A Luca non piacciono molto. Sono forse le uniche due persone in mediateca con cui non abbia mai scambiato neanche una parola, perché li trova un pochino sospetti, anche se non riesce a inquadrare bene perché. Sa solo che persone come Emiliano, Sesamo e Gaijin tutto sommato non sono sospette, mentre i Giullari sì. Non capisce perché dei ventenni dovrebbero vestirsi così per venire in biblioteca. Non gli piace stare comodi, come la gente normale?
Qui lasciatemi arricchire un po’ con un paio di riflessioni personali le impressioni di superficie di Luca, che come al solito non si occupa troppo di spacchettare quelle prime intuizioni sugli altri che contengono sempre molto più di quanto non ci azzardiamo a credere. Il suo sospetto nei confronti dei Giullari è forse una delle poche cose su cui andiamo d’accordo: anch’io li conosco, e anch’io non amo parlare con loro, principalmente per il fatto che non mi ritrovo mai a parlare con uno di loro da solo, ma sempre con entrambi, in coppia, e che i Giullari parlano sempre a turno, un po’ sfalsati, uno avanti e uno dietro, uno a parlare e uno a suggerire all’altro che cosa dire, come se oltre al cerchio della conversazione presente esistesse un cerchio più interno, più esclusivo, ovvero quello della conversazione segreta fra i due Giullari, con le sue logiche, i suoi aneddoti, i suoi sottintesi, così che chi si avvicina a loro lo fa sempre per una sorta di senso di lusinga nel partecipare a questo circolo esclusivo, senza accorgersi di esserne rimasto, in realtà, escluso. Gli amici dei Giullari, di conseguenza, non sono mai davvero loro amici, ma gente di cui ridono credendosi non visti, senza accorgersi che, di fatto, qualora questi non-amici decidessero di restargli attorno per più di qualche mese, sarebbe unicamente per affetto o per pietà, o per la santa pazienza con cui ignorano bellamente l’allucinazione per cui i Giullari continuano a proiettarsi al di sopra di tutto e di tutti, visto che in essa non abitano che i Giullari, e visto che, per il fatto stesso di crederla già in atto, i Giullari rendono sostanzialmente ridicolo e inoffensivo ogni loro tentativo di attualizzare questa allucinazione e innalzarsi, effettivamente, al di sopra di tutto e di tutti. Luca mostra quindi vera saggezza nel mantenersi a distanza da loro perché, se si avvicinasse ai Giullari, sarebbero loro a mantenere lui a distanza, restando in equilibrio sopra di lui nelle loro incomprensibili interazioni siamesi, simulando un interesse di qualche tipo, in realtà distaccandosi da lui come da tutto ciò che si decide di prendere ironicamente.
Grazie a questa intuizione felice, una delle poche, Luca non ha mai commesso il mio stesso errore, e cioè di andare da loro a chiedere consigli o addirittura, a volte, a parlare di sentimenti, e nel mio caso specifico proprio di quella classe di sentimenti che mi suscita la presenza di una ragazza-signora in mediateca, avendo espresso a entrambi o a uno di loro, che poi è lo stesso, il mio interesse e certe mie intenzioni, il mio voler agire sulla base di questi miei sentimenti, per così dire, trovando loro o lui subito pronti a incoraggiarmi. Sì, certo, fallo, devi farlo! Dicevano così e sorridevano a turno guardandomi con due paia di occhi tremendamente vuoti, come sembrano a volte gli occhi nelle vecchie fotografie scattate con macchine analogiche, rossi per via di qualche flash eccessivo che nel loro caso saliva alle pupille da dentro, rifluendo, piegandogli le bocche, e che era il flash delle loro fantasie su come avrei raccontato loro ciò che avevo fatto, quando l’avrei fatto, ovvero il flash dell’intero viaggio della mia impresa tentata e fallita e già proiettata nelle loro teste mentre mi sorridevano mostrando tutti i denti a bocca aperta. Certo, devi assolutamente farlo e poi, aggiungevano lasciando debordare il loro flash, rivelandosi, e poi, sai cosa farebbe ridere? E iniziavano a elaborare scenari di comicità per loro variabile e per me quasi nulla, che includevano castelli e mongolfiere e altre cose tirate fuori dal cilindro del loro immaginario di Giullari, e io pensavo, certo, certo che lo farò, senza accorgermi che per loro questa impresa per me importante, questo viaggio che mi ero fatto anch’io e che in me si espandeva e ramificava in misura di crescente complessità, che si reduplicava di ora in ora dal nulla da cui era esploso disegnando centinaia di migliaia di percorsi moltiplicati, era uno scherzo, e io nient’altro che la macchietta inscatolata di un personaggio che viene qui e va al Conad e vede una signora giovane, a volte col passeggino e a volte no, a volte col cappotto nero e a volte no, e se ne innamora. Innamorarsi: sono loro a pensarla, nelle loro teste, questa parola enorme, svergognata, sentimentale, non io. Non Luca, che pure l’ha usata qua e là con una certa serietà, ma con riserbo. Per loro questa è una parola da appiccicare a incontri tra sconosciuti per renderli interessanti, perché ciò che davvero manca ai due Giullari è qualcosa che li strappi dalla noia di dover essere Giullari, motivo per cui sono sempre impiegati in questa continua operazione di distacco da loro stessi e alienazione di sé nelle storie di altri, inclusa la mia, storie che fanno sempre così ridere – si sentono ridere solo loro, qui dentro, tutto il tempo, e quella volta ho riso anch’io, ahahah! Quanto farebbe ridere se…? Va bene, dai, lo faccio. Lo faccio, tanto più o meno so dove abita.
Sesamo li conosce un po’ meglio di Luca, e li saluta. Guardali, lì, tutti sorrisi arlecchineschi e colori: invitano Sesamo e Luca per un caffè, Sesamo si porta alle labbra indice e medio uniti, segno che esce a fumare, e poi fa roteare a vuoto un indice teso per dire che magari si unirà più tardi. Luca spinge la maniglia rossa antipanico sul portone di vetro e esce per primo, tenendo aperta la porta per Sesamo. Quella, in risposta, gli si richiude dietro col solito cigolio seguito da un rombo di vetro e plastica, come a dire: l’avete voluto voi, ora vi tocca stare fuori. Ora gli tocca: è freddino, effettivamente. C’è già il cielo ecchimotico del tardo pomeriggio, tutto il cortile è in ombra. Il piumino di Luca non lo copre granché e i pantaloni grigi della tuta, ottimi per stare seduti, lasciano passare anche troppo freddo, per i suoi gusti. Si mette a braccia conserte, cerca di non concentrarsi sul tempo che passa e sul volere che passi, mentre Sesamo sbecca con le unghie il suo portasigarette di Mao ammaccato tentando di aprirlo, sbuffando contro un ciuffo sfilacciato di capelli che continua a ostruirgli la visuale.
«Vuoi una mano?» chiede Luca fra i primi brividi.
«No, ecco». Mao si apre. «È solo un po’ arrugginito. Tieni, condividi il vizio» sentenzia Sesamo porgendogli una sigaretta, che Luca prende quasi di nascosto, cercando di non farsi notare da Emiliano, che intanto, in mediateca, porta un vassoio di tè e caffè ai Giullari. Segue cicaleccio di accendino, scintille, lumicino, e le prime, riposanti sbuffate. Luca non fuma da un po’: quando inala sente la testa alleggerirsi come se il fumo gli stesse salendo da dietro i dotti lacrimali in una zona invisibile sopra il palato. Dalla faccia, si direbbe che non gli dispiaccia neanche il bruciore al petto, ma che gli piaccia non si può dire con certezza. Forse si era dimenticato che effetto faceva fumare nelle pause, non che lui sia mai stato un gran fumatore da pausa, ma magari si ricorda, come tutti noi, di qualche compagno di classe del liceo dall’aria amena e maledetta che si fumava il tempo sotto il cielo violetto di una prima ora speculare all’ultima ora di luce di questo tardo pomeriggio, a volte solo, a volte con qualche altro amico maledetto. Giullari d’altri tempi.
«Cosa faranno tutto il giorno, quei due…» commenta Luca accennando appena in direzione dei Giullari che ridono con Emiliano o di Emiliano, molli nel loro divanetto di pelle, nel loro bar della fantasia, che ora, dietro il vetro della mediateca e dentro la luce cubica della mediateca pare essere ancora di più proprio questo, appunto, e cioè una fantasia, una loro vitrea fantasia inscatolata dentro una notte, che, da fuori, li assale senza farsi sentire.
«Uno fa un master in cose umanistiche, l’altro in cose scientifiche. Dopo se vuoi ci prendiamo un caffè insieme e ci facciamo quattro chiacchiere, sono due personaggi. Oh, e a proposito di personaggi: guarda chi c’è lì».
Sesamo si è sporto un po’ sul cortile, che fino a un secondo prima sembrava vuoto. Ora indica Gaijin seduto a uno dei tavoli di plastica, ultimo banco dalla loro prospettiva, com’è ovvio, a bere tè freddo della marca più economica da un bottiglione di plastica accartocciata o a ciucciarsi con gli occhi strabici l’ultima luce del giorno per finire di sfogliare le pagine stropicciate e appiccicose di un manga sgraffignato al piano terra. Anche se in realtà non sta leggendo, non con tutti e due gli occhi. Borbotta, come al solito, fra un sorso di tè e un tentativo di prendere una boccata di fumo dai resti di un drummino spento, a cui seguono altre imprecazioni, altre contrazioni delle sue dita enormi e sporche sulle pagine del manga, altre rotazioni indemoniate di uno dei due occhi, tutto perché si sente osservato, non da Sesamo e Luca, che non ha visto, ma da due ragazzine del liceo sedute su una delle tre panchine del cortile, che fumano e confabulano, una con addosso un cappotto lungo e nero che potrebbe aver rubato alla madre e l’altra più bambina, con un giacchettino che pare fatto di lana o di una pelliccetta sintetica beige troppo leggera, visto che continua a stringerselo addosso. Le ragazze, sospettosa la prima, spaventata la seconda, siedono su una panca al centro del rettangolo del cortile, da cui possono vedere la coppia Luca-Sesamo che invece Gaijin, solo nel suo angolo oscuro, non vede, e fumano accertandosi che Luca e Sesamo restino lì a supervisionare la situazione, in caso… Cosa? Gaijin è innocuo, no? Lo ripete sempre anche Sesamo.
«Guardalo» dice Sesamo a Luca, «adesso di sicuro tenta un approccio».
Seguendo l’indicazione registica di Sesamo, Gaijin biascica qualcosa che potrebbe essere una domanda sull’ora oppure sul tempo o su un possibile accendino, la sua personale versione di una conversazione casuale accompagnata da un epiteto che suona come “belle chicche”, o qualcosa di simile, il tutto senza sollevare dal manga il suo testone tremolante, ormai in ombra, guardandole solo con uno dei due occhi come uno strano ciclope, così che l’impressione che trasmette è quella di aver posto la domanda a sé stesso, più che a loro.
Le ragazze, per paura o perché, effettivamente, non si capisce un cazzo quando parla Gaijin, non gli rispondono. Giustamente: neanch’io lo farei. Segue un borbottio di parole che suonano molto come insulti, e probabilmente lo sono. Le ragazze continuano a far finta di niente. Si guardano, mentre Luca sospira di sollievo per non aver invitato fuori la ragazza-signora a assistere alla scena. È stata senza dubbio la scelta giusta, si dice, chissà cosa avrebbe pensato se avesse visto Gaijin, o peggio, se avesse visto me che ci parlo, e certe volte ci scherzo pure, gli offro il caffè, forse avrebbe pensato che… ma qui facciamo che ve lo dico io come avrebbe reagito la ragazza-signora, perché, effettivamente, non si capisce un cazzo quando pensa Luca, quindi ecco, quello che posso dirvi con certezza è questo, e cioè che se la ragazza-signora si fosse trovata sulla panchina al posto delle due belle chicche, magari a fumare, o magari scrollando il feed di qualche social al telefono, sempre stringendosi un pochino sul petto il suo cappotto-accappatoio, e se Gaijin le avesse chiesto l’ora, o il tempo, o qualsiasi altra cosa gli fosse uscita da quella bocca buona solo a buttar fuori mezze parole e mezzi insulti, mai una volta che l’aprisse per farsi capire – e da una come la ragazza-signora, poi! Con quegli zigomi che tagliano il palmo delle mani, a accarezzarli! Con quegli occhi che vedono la tua forma intagliata nel tempo dai crimini che hai commesso! Con quella bocca tutta stretta che è sul punto di accusare e inchiodare i malcapitati alla croce personale dei loro errori e peccati! –, se Gaijin avesse anche quindi anche solo osato fare una domanda sul tempo, dicevo, o sull’ora, a una ragazza-signora del genere, lei avrebbe alzato gli occhi dal telefono per piantarli dentro di lui e l’avrebbe infilzato senza pensarci un attimo, prima di dirgli, con calma, con la sua voce che possiamo solo immaginare bassa, liquida, forse anche con un accento dell’est, appena riconoscibile, perché sarà venuta qui da bambina, forse, come Gaijin, nei primi anni novanta, e sarà giusto un po’ più piccola di lui, che di sicuro da qualche parte nel suo cranio pieno di ammaccature serba il ricordo di un arrivo, mentre lei magari no, con questa voce gli avrebbe detto: sono le cinque, o: domani piove. E sarebbe finita lì. Se ne sarebbe andata. Senza scandalizzarsi, né niente. Chissà quante ne ha viste, la ragazza-signora. Di sicuro ha altri problemi. Un tizio che si fa le seghe nel bagno di una biblioteca non le fa nessuna paura. Può tranquillamente dirgli che ora è, anche se lui la chiama “chicca”, e tra i denti le dà della puttana quando se ne va, pur accorgendosi, da qualche parte nei Balcani devastati del suo cranio, che questa è la prima volta che una ragazza risponde a una delle sue domande-ingiurie, ed è la prima volta che prima di chiamare una ragazza “puttana” qualcosa si blocca nei convolvoli tumefatti del suo cervello, raggrumandosi in una specie di aneurisma dei pensieri degli ultimi giorni, quasi un pensiero completo, appunto, ma intraducibile nel limitatissimo vocabolario di Gaijin, qualcosa che sopravvive dunque solo sotto forma di sensazione o impressione prerazionale della diversità di quello scambio di parole rispetto a tutti gli altri, anche senza che fosse riuscito a capirne pienamente il motivo.
Intanto Luca e Sesamo continuano a parlottare e sbuffeggiare fumo nel loro angolino davanti alla porta a vetri.
«Sì, però anche lui. Cioè, fa paura, così. Poracce, quelle due».
«Guarda, alla fine non ha mai fatto nulla di male. Lo devi solo conoscere un pochino».
«Ma qualche volta ci parlo, gli offro anche il caffè, solo che poi te lo chiede sempre. E se non glielo offri si incazza pure».
«Digli che sei senza soldi».
«Eh, ma lui si incazza. Poi non lo avevano pure arrestato, l’anno scorso?»
«No, non arrestato. L’hanno fermato una sera. Ha discusso con un carabiniere la notte di capodanno, perché lo avevano trovato che armeggiava con la porta di un condominio, e qualcuno deve aver chiamato la polizia. Ha provato a raccontarmelo, ma sai com’è, nelle sue storie l’unico che ci capisce qualcosa è lui».
«Boh, sui giornali dicevano che avevano arrestato un albanese e girava voce fosse lui».
«Ah, le bellissime espressioni standard della stampa locale. Stato di ebbrezza, noto alle autorità, albanese… Se avessi fatto la stessa cosa io, mi avrebbero mandato a casa e non ci sarebbero stati articoli. Poi, se dipendesse da me, io le forze dell’ordine le abolirei».
«Mh. A noi l’anno scorso avevano rotto i coglioni per i fuochi alla casa della Machi in campagna, è dovuto venir su suo padre. Capodanno è sempre un po’ un casino».
«Capodanno è uno schifo. E il peggio è che quando arriva, ovunque vai è capodanno».
«Già. Non si può scappare».
«Immagina se sei da solo».
Pausa nella pausa, boccate nelle boccate, Sesamo fa anelli di fumo. Dentro, Emiliano parla ancora coi Giullari, e a guardarli da oltre la porta, tutto luci in mediateca e il buio fuori, pare di assistere a un incontro di gala dentro un’arca da cui i Luca, i Sesamo, i Gaijin e le ragazze terrorizzate sono caduti fuori, ritrovandosi a galleggiare senza peso nella sera. Luca vorrebbe davvero rientrare, sia per il freddo che per il timore di dover a un certo punto parlare con Gaijin, ma vorrebbe anche evitare i Giullari, che gli mettono addosso la stessa inquietudine del cortile in ombra, della notte calante, delle facce pallide e confabulanti delle ragazzine.
«Te che stai facendo oggi?» chiede Luca a Sesamo, tanto per mandare avanti la conversazione.
«Ho corretto un po’ la tesi di questo cretino su La guerra dei mondi. Il romanzo, non il film. Una cosa abominevole. La tesi, non il romanzo. Il romanzo è bello. Ora sto rielaborando un pochino uno spettacolo teatrale che vorrei proporre in primavera».
«Fai teatro? Non lo sapevo».
«Sì, ho recitato qualche monologo che ho scritto, ma mai qui, sempre fuori. Una volta lo facevo più spesso. Adesso che con le tesi non si guadagna più nulla, stavo pensando di ricominciare. Ai tempi ho fatto un paio di spettacoli messi insieme a quattro mani con Bogdanone, avevano anche avuto abbastanza successo».
«Ma coso è quello che faceva il giudice dei romanzi a Masterpiece
«Lui. Lo conoscevo quando ancora non era nessuno, prima che vincesse il Campiello. Girava molto per centri sociali, quindi l’ho incontrato così».
«In tele non sembrava molto un tipo da centro sociale».
«Adesso ha fatto i soldi ma una volta era un pazzo furioso. Indemoniato. Non hai idea. È che la gente se lo ricorda per Fobos e Deimos, ma quello che scriveva prima era molto meglio, secondo me. Recuperati Il quarto vagante o Allo Prosallo, se ci riesci. Erano usciti con Bollati, ora so che hanno fatto delle nuove edizioni. Forse Mondadori ha ripubblicato qualcosa, ma ho letto che ci sono delle censure, dovresti cercare una delle vecchie edizioni…»
E si espande da qui la fiumana di aneddoti su Sesamo e Bogdanone, accrescendosi, gonfiandosi in un’onda che pian piano travolge Luca, riducendolo al silenzio come spesso ha ridotto anche me. Quelli di Sesamo sono aneddoti su un passato che è impossibile da identificare come remoto o prossimo, fatto di vagabondaggi alla fine della storia, di notte, in autostop, saltando da un concerto all’altro, o meglio, da una performance musicale all’altra, perché, da come li descrive, questi eventi a Luca fanno venire in mente, piuttosto che la musica, una strana forma di rumore organizzato secondo le regole vaghe d’espressione della rabbia, con le sue associazioni inevitabili al nazismo, all’occulto e a sessualità non convenzionali, ma forse Luca, semplicemente, non capisce questo genere di musica, come non capisce molto di mail art, quando Sesamo gli racconta di come negli anni novanta lui, Bogdanone e tutti “gli altri della scena” si scambiassero via posta “opere” che potevano andare da audiocassette a testi a dipinti a fotografie a sostanze tossiche di vario tipo a esplosivi fatti in casa a escrementi a carcasse animali in decomposizione. Immagina, dice Sesamo, che tutti gli artisti di quel periodo facevano mail art, e insiste nel ripetere la parola “artisti” per nominare tutta una serie di individui che Luca non conosce ma che sta probabilmente immaginando, se ha seguito l’ingiunzione di Sesamo, come invariabilmente spettrali, vestiti di nero e soprattutto soli: soli in stanze sotterranee senza luce e appestate di fumo, strette come celle di prigione in qualche oscura e infelicissima periferia, collegate a tutti gli altri seminterrati-prigione di tutti gli altri artisti da una rete ragnesca di cavi telefonici e tubi di scarico e condotti fognari e contatti postali scarsamente sorvegliati, catturando insieme questi individui in un unico spaventoso campo magnetico deformato dalla presenza di sempre nuovi stranieri e disadattati di vario genere, connessi e capaci, tra loro, di raccontarsi tutto e condividere tutto grazie al potere maledetto della parola-codice stampata su francobollo come dna su un corpo alieno, concretizzatasi nella realtà direttamente a partire dalla loro fantasia, della parola-verme-mentale che striscia nelle loro grafie illeggibili di ultimi della classe, dipanate in imitazioni di indirizzi, codici postali, nomi di città e destinatari, ma mai di mittenti. Il mittente andava spesso indovinato, dice Sesamo, e cercato sulle fanzine clandestine che circolavano in quegli anni, decine, centinaia di fanzine con parole in forme informi che farebbero rabbrividire di vergogna i futuristi più accaniti, e foto e dipinti e accenni di video e recensioni di album dalla circolazione interamente sotterranea, quasi desiderassero più sparire che essere scoperti e ascoltati, a volte dichiarandolo apertamente nei loro titoli, e così, cercando i mittenti, o scambiando Bogdanone per il mittente di qualcosa, allucinando un Bogdanone di cui aveva solo sentito parlare a partire dall’odore di qualche polvere allergenica ricevuta in busta bianca o di qualche cadavere di creatura irriconoscibile rinvenuto all’interno di un complesso labirinto di scatoloni mandati da ignoti, ecco, così Sesamo aveva ricevuto l’indirizzo di Bogdanone, o di qualcuno che avrebbe potuto essere lui, o un suo clone. Chiedeva testi, mandava testi, e Sesamo a un certo punto gli ha inviato il suo monologo teatrale attraverso un etere notturno di cassette postali e lunghi silenzi stellati in attesa di risposta, un testo «in cui alla fine, in teoria… in pratica… ci sarà molto da tagliare…», un testo di cui hanno cominciato a discutere per lettera e che hanno rielaborato, sempre a distanza, senza chiamarsi mai, senza vedersi mai, ognuno allucinando l’altro nella luce elettrica lontanissima di una lampadina osservata dalla superficie sudicia del pavimento del proprio seminterrato-prigione, ognuno seppellito in una solitudine che abbruttisce oltre ogni misura di sensibilità e sopportazione umana, così immagina Luca, giovani soli e abbruttiti, abitanti le capsule spaziali di mediateche senza finestre e senza uscite, intenti a tagliare i loro testi, Sesamo e Bogdanone, appunto.
Dal resoconto non si capisce chi dei due abbia suggerito l’idea centrale dello spettacolo che sto per raccontarvi e che è essenziale che vi racconti io e non Sesamo, io, indirettamente, perché se sentiste raccontare lo spettacolo direttamente da Sesamo, nelle parole di Sesamo, così come l’ha sentito raccontare Luca e come l’ho sentito raccontare io, in una sera come questa, in questo stesso cortile, se vi ripetessi una per una le parole che Sesamo pronuncia nella semioscurità di una serata invernale con la sua voce perfettamente calma, doppiata, e il suo sillabare perfettamente chiaro e senza accenti, se dovessi dirvele così, senza il filtro di un’altra voce che ve le racconta, reagireste allo stesso modo in cui abbiamo reagito io e Luca, e tutte le altre persone a cui Sesamo ha raccontato l’idea centrale dello spettacolo, cominciando sempre dal luogo in cui cominciano tutte le idee, che è un seminterrato-prigione, ed è sempre oscuro di un’oscurità impenetrabile alla luce finché non vi palpita dentro, dal nulla, il grumo sanguigno e parassitico di un’idea, non si sa se sua o di Bogdanone, ma certo è Bogdanone che la nutre, che la ingrassa con le parole-vermi delle sue lettere, parlando all’interno di Sesamo con la satanica eloquenza di un Sesamo parallelo: mio caro Sesamo, ebbene mi pare che tu non abbia altra scelta se non farlo, così, sul palco, presentarti e farlo, ed è certamente ancor meglio ciò che hai proposto, ovvero di procedere senza preparazione né dizione, perché, come hai ben detto, di tutti i tagli al testo questo è certamente il più fondamentale, e dal momento che non ci si può in alcun modo preparare a un’azione fondamentale, a un’azione pura, essa può essere compiuta una e una sola volta, e noi dobbiamo compierla, Sesamo, è il nostro compito compierla, solo noi possiamo, solo noi che siamo stati abbandonati da tutti senza ricevere nulla e che non abbiamo chiesto nulla e che non possiamo ereditare nulla, noi esiliati, mio caro Sesamo, contro la nostra volontà, poiché sono loro che hanno sempre interpretato la liminalità della nostra esistenza come una minaccia alla centralità della loro, e hanno ritenuto giusto amputarci dal mondo. Sono loro che non vedono che senza gli esiliati e i vagabondi come noi la loro esistenza centrale non si qualifica, non si focalizza, non si riempie. Sono loro che non accettano che si possa vivere come noi viviamo, sono loro che disprezzano la nostra libertà e la libertà in generale, la vera libertà dei senza-casa materiali e immateriali e quella finanche dei miserabili che loro stessi non hanno mai avuto il coraggio di essere, poiché anche la libertà dei miserabili ricorda loro che esiste un’altrove rispetto a ciò che tutti i giorni delimitano e qualificano col nome di “vita”, la loro, appunto, costretti così a limitare le loro nomenclature con una specificazione possessiva che rispecchi adeguatamente il loro stato di prigionia: “la nostra vita”, “la mia vita” e quindi, inevitabilmente “solo la mia vita”. Per questo, Sesamo, non possono che disprezzare la libertà di chi soffre in sé la sofferenza del sentirsi inqualificabile, perché essa apre la possibilità di una vita che è altre vite, Sesamo, di una mente che è più menti: quella che soffre e quella che osserva la sofferenza, quella che parla e quella che prima, nel buio di sé, ha partorito la parola. Dobbiamo essere noi a mostrare loro la massa innervata e pulsante di quest’altra mente, Sesamo, poiché nella loro disperazione essi rifiutano di riconoscere di essere più di ciò che sono, più numerosi, più ampi, più vertiginosi. Dobbiamo essere noi ad aprire loro gli occhi, e qualora non fossero disposti ad aprirli, allora saremo noi ad aprirci per loro.
E così via elaborando e rimestando l’eterna dicotomia noi-loro che, come ogni riduzione del complesso al semplice, è il marchio inconfondibile della stupidità. Sesamo però racconta l’effetto di queste parole su di lui, non molto diverso dall’effetto delle sue parole su Luca e su di me, l’effetto di seduzione quasi diabolica che aveva fecondato la sua mente con l’idea di aprirsi, questa è la parola che utilizza, aprirsi sul palco, di fronte a tutti. In che senso? Si domanda Luca, sbagliando: nulla di ciò che Sesamo sta dicendo ha davvero un senso, nonostante la concatenazione delle parole. O meglio, domandarne il senso o il significato non è la cosa giusta da fare. In che senso?
Sesamo inizia a descrivere il palco di un teatro all’aperto in una foresta da qualche parte in Umbria. Qualche volta capitava che ci si desse appuntamento anche così, racconta, solo pochi, nei paraggi di qualche campeggio abbandonato o chiuso per l’inverno, qualche hotel polverizzato lungo strade da tempo abbandonate e inghiottite e digerite dai tentacoli rampicanti della vita che al di sotto della vita sempre fagocita la vita, ci si incontrava alla luce di fuochi che consumano stracci, gomma vecchia e plastica dentro cerchi di mattoni e sabbia, abbandonati da altri prima di noi, esiliati in piani d’esistenza più profondi ancora. Là Sesamo sale su un palco di pietra, a capo chino. Gli altri, il semicerchio degli altri di fronte a lui, ognuno un centro nel semicerchio spalancato dal ventaglio della visione che gli riempie gli occhi, contemplano dal centro di sé l’entità periferica e straniera di Sesamo che sulla lastra di pietra si innalza di fronte a loro e si prepara, inspira, cercando di non tremare, espira, raduna tutto il corpo attorno al dilatarsi e contrarsi dei polmoni mentre si sfila lentamente una felpa qualsiasi o una maglietta di un gruppo che stavolta qualcun altro, oltre a lui, conosce. Non inizia a parlare, come ci si aspetterebbe durante un monologo teatrale. Lascia soltanto scoperto, così davanti a tutti, un corpo esile, mai allenato se non alla privazione, un drappo di pelle su uno scheletro d’ossa pieghevoli, piegate sull’idea di aprirsi. Si prepara: e così mi sono aperto. Bogdanone era lì, e approvava, e rideva, dice Sesamo ridendo a sua volta, i suoi occhi mi dicevano: fallo. E lui l’ha fatto: ha estratto dalla tasca il serramanico e ha fatto scattare la lama, mostrandolo ai presenti, impugnato con la sinistra e sottolineato col palmo della destra rivolto in alto come un oggetto sacro, perché si assicurassero che ciò che ora registravano nella periferia del loro sguardo fosse davvero un coltello, e che Sesamo stesse davvero appoggiandone la punta nella parte più tenera del basso ventre, sulla sinistra, per poi cominciare a spingere verso l’interno, lentissimamente, dando a sé stesso l’occasione di assaporare e a tutti gli altri l’occasione di vedere la pelle di quel corpo glabro e fragile tendersi verso l’interno fino al massimo limite sopportabile. E poi lampo di rosso, un gemito tra labbra strette, un sussulto animale. Si vede? La lama continua a scendere. Si vede? Lampi di rosso, fiotti di rosso e qualcosa di innervato e pulsante, il gemito cresce senza farsi grido, tremore di mani, muscoli tesi sugli avambracci scarni, tesi per la prima volta, tesi a trattenere il coltello per aprire, spingono verso dentro, il rosso riempie gli occhi assetati che guardano lui, lo guardano aprirsi, rosso che gocciola in mezzo alle dita, sopra il cemento, guardano aprirsi pian piano le labbra della ferita mentre Sesamo le dilata per loro, per mostrargli una cosa, per lasciar toccare al loro occhio ciò che palpita oltre lo strato della pelle e dei muscoli, l’apparato di organi invisibili che ciascuno percepisce di avere attraverso i sommovimenti affamati dello stomaco, lo sfondarsi dei polmoni, lo scoppiare del cuore, il ribollire degli intestini, di cui quasi nessuno fa esperienza diretta, e della cui esistenza ultima, basandosi solamente su questa inabitabile periferia sensoriale di impressioni tattili e uditive che è la coscienza quotidiana, si potrebbe persino dubitare dall’interno del sistema del corpo, finché non ci si apre, finché non ci si mostra e non si mostrano agli altri, come ha fatto Sesamo, le proprie viscere pulsanti. Prima di perdere i sensi. Come fa ora Luca, sentendo la storia. Come ho fatto io, quando l’ha detta a me. Come non ha fatto la ragazza-signora, quella notte, stringendosi nel suo cappotto-accappatoio nero, accoccolata sulle ginocchia per non toccare coi vestiti l’erba bagnata, divorando tutta la scena con la spietatezza dei suoi occhi terrorizzati.

***

«Oh. Luca. Lu. Luca. Oh. Svegliati. Luca».
È la voce di Sesamo a ripescarlo dal principio di un sogno sulla ragazza-signora, ma la faccia che si trova di fronte non è quella di Sesamo, è un’altra: rotonda, livida, coperta di bozzi e crateri come una di quelle lune rosse troppo grandi che sorgendo all’orizzonte in anticipo su ogni previsione sembrano voler minacciare il pianeta con la loro improvvisa e esagerata prossimità, facendosi, da satelliti, parte del pianeta, precipitandosi qui – che poi non è forse così che è nato, questo sistema-equilibrio pianeta-satellite? Con il precipitarsi spaventoso di un corpo celeste su un altro, in un altro, quattromilacinquecento milioni di anni fa, entrambi fusi nel nucleo di una stella defunta e scaraventati intatti per chissà quanti millenni-luce di vuoto cosmico, squarciando la periferia sbriciolata di meteore della fascia di Kuiper, se già c’era, per collidere silenziosi in un vuoto dove non esiste ossigeno a registrare le onde dell’impatto o timpani animali a vibrare in risonanza con esse, ma solo il fluido incantato e invisibile che si tende al manifestarsi delle cose, il corpo solo e vergine del pianeta che abitiamo, questo corpo incandescente avviluppato in una scorza di terra, stabilendo così, per la prima volta, cosa fosse centro e cosa fosse satellite, cosa debba attrarre, luminoso, col brusio della sua corona di vita sulla crosta, e cosa debba gravitarvi attorno, deserto, freddo, senza atmosfera, con gli occhi spalancati e desideranti dei suoi crateri. Occhi come quelli di Gaijin: uno puntato in faccia a Luca e l’altro verso una qualche stella non ancora comparsa, o verso le ragazze che si sono avvicinate timidamente per assicurarsi che Luca stesse bene, quando lo hanno visto afflosciarsi lungo i tre gradini che connettono la mediateca al cortile esterno, come se Luca avesse abbandonato il corpo di Luca e fosse volato altrove, trovandovi inoltre una scusa per svicolare verso la mediateca, lontano da Gaijin, ora riportato sotto la sorveglianza forzuta di un altro maschio, Sesamo, l’unico lucido, come dimostra coi suoi schiaffetti sulla guancia di Luca.
«Oh. Luca. Oh».
«Ma sta bene?» chiede preoccupata la ragazza col cappotto nero, un po’ più signora.
«Eh?» fa eco un Luca stralunato. È stato un errore, per loro, parlare: ora Gaijin le ha viste vicine, incluse nella rete delle sue relazioni sociali, e ha una scusa per attaccare bottone. Inizia a biascicare il suo flusso di parole indistinguibili, spiaccicando l’ultima sillaba di ciascuna sulla prima sillaba della seguente, come se avesse in bocca una lingua troppo spessa o troppo pesante. Dice che Luca sta bene, certo, bene, sì sì, non lo vedete, belle chicche, blechicche? E anche lui gli dà qualche schiaffetto sull’altra guancia con le sue dita enormi, ruvide, sporche e puzzolenti di non si sa cosa. Basta quell’odore, qualunque cosa sia, a risvegliare Luca.
«Sto bene, sto bene. Per un attimo ho visto tutto nero…»
Le ragazze lo guardano, si guardano, Gaijin le guarda: c’è un sacco di guardare.
«Vuoi che ti chiamiamo qualcuno? Ti serve un bicchiere d’acqua?»
«Eh? No, no… Avrò avuto un calo di qualcosa».
Avrà avuto… che avrà avuto, in effetti? Luca se lo chiede un paio di volte. Cosa stava facendo? C’era questa storia che gli stava raccontando Sesamo con la sua voce sensitiva da radio a tarda notte, una storia su uno spettacolo teatrale di cui gli balena in mente la scena di una foresta illuminata dal basso, le cime nere degli alberi a graffiare coi rami neri la cupola di un cielo nero, qualcosa di rosso, e già gli gira di nuovo la testa. Meglio non pensarci. Meglio fermarsi qui.
«Sicuro?» chiede un’ultima volta la ragazza col cappotto nero, mentre l’amica con la pelliccetta di lepre già apre la porta per andarsene. E intanto Gaijin continua il suo balbettio che nessuno ascolta, o meglio, che tutti cercano il più possibile di non ascoltare per poter mantenere la conversazione sul piano della comprensibilità e soprattutto della decenza, ovvero, per dirla in breve, per continuare a parlare tra umani, e Gaijin, accorgendosene, intensifica il flusso terrificante del suo monologo, sì, sì, è sicuro, è sicuro, ma restate, blechicche, restate un altro po’, non volete restare con Gaijin? Evidentemente no, lo capirebbe chiunque, la paura che cresce attimo dopo attimo sarebbe misurabile nelle piloerezioni sui loro avambracci, se indossassero maniche corte, mentre fingono di ascoltare Luca che assicura a tutti di star bene e Sesamo che gli dice che forse dovrebbe davvero farsi portare qualcosa, un caffè, una liquirizia, qualcosa che gli alzi un po’ la pressione, insomma, sì, ma restate, blechicche, non andate via, ce l’avete una sigaretta per Gaijin? No? Ehi, parlo con te, chicca, ce l’hai una sigaretta? Oh, bella figa, ce l’hai una sigaretta per Gaijin? Ce l’hai? Parlo con te, blafiga. Parlo con te, puttana.
Continua per un po’ ma le ragazze se ne sono andate dopo la prima richiesta di sigarette, senza ascoltare quasi nulla del resto, perché sanno, come tutti in mediateca, che rispondere a una qualsiasi richiesta di Gaijin significa garantirgli credito illimitato per tutte le successive. Sesamo lo rimprovera.
«Non le chiamare così, dai».
Ma sono delle puttane, insiste Gaijin, e ride con la bocca mentre con gli occhi continua a guardare da tutte le parti contemporaneamente, senza notare che in Luca sta ora montando un panico molto simile a quello delle due ragazze, perché si è appena accorto, seduto sugli scalini freddi fuori dalla porta d’accesso al cortile, che, contrariamente a quanto annunciato, in realtà non sta affatto bene: se cerca di alzarsi, infatti, la testa gli gira ancora, e avverte uno strano formicolio alle gambe, sintomi, questi, che non lo preoccupano in quanto sintomi ma per il fatto di rendergli impossibile una fuga proprio adesso che ne avrebbe più che mai bisogno, proprio adesso, cioè, che Gaijin sembra sul punto di imbarcarsi in un lunghissimo monologo in risposta alla provocazione di Sesamo, che invece non avverte affatto il pericolo imminente – e come potrebbe, considerato il genere di monologhi in cui si esibiva lui, una volta? Non è certo un esempio di equilibrio, Sesamo, diciamocelo, Luca se lo dice, no, non è affatto una persona equilibrata, non lo sono né lui, né Emiliano, né i Giullari, né tantomeno Gaijin, anzi, Gaijin lo è meno di tutti, probabilmente non lo è mai stato e non lo sarà mai. È chiaramente lui, Luca, l’unico equilibrato nel cortile della mediateca, l’unico a sentire, adesso, di preferire qualsiasi cosa al rimanere seduto là fuori, lontano dal caldo di chi sta al chiuso e persino dai Giullari e da Emiliano che sembrano spassarsela attorno al pianoforte del bar interno, ma le gambe non gli rispondono, e così eccolo prigioniero del cortile limitrofo alla mediateca ormai immersa in quel mescolarsi di luce elettrica e ombre frante che ricorda ai solitari, come è Luca ora, e ai vagabondi, che per quanto illuminata possa essere la notte sopra di essa la cappa del cielo è sempre oscura.
Non esiste luce che possa illuminare ogni zona d’ombra, come non esistono sentieri visibili per chi non può muovere le gambe verso il cuore spazioso e caldo della mediateca, non esiste modo di unirsi agli altri, chiunque siano, pur di non sentire Gaijin che continua il suo monologo incomprensibile, certo che sono delle puttane, delle maledette puttane, e così via, delle puttane che studiano per fare finta, fanno finta, fanno finta di studiare, per fare finta ma in realtà vogliono scopare, sì, con me non mi parlano perché sono albanese, puttane, ma se fossi, gliela farei vedere, gliela faccio vedere.
«Cosa? Cosa gli fai vedere?» chiede Luca ad alta voce, debole ma chiaramente irritato per la propria debolezza, che lo costringe lì fuori al freddo, e per le spacconate di Gaijin, e capisce subito di aver fatto un errore, non tanto perché Gaijin, percependo qualche insulto nella voce, potrebbe tranquillamente prendergli la testa tra le mani e spappolarla come un frutto marcio, no, ma per il fatto che la domanda fa debordare senza controllo le parole di Gaijin, e in questo Luca è fortunato, perché una volta che Gaijin comincia a parlare così è come se gli si fosse acceso un motore dentro, un rumorosissimo motore a avviamento a strappo come quelli delle motoseghe, dove si deve tirare la manopola una volta (vrom!) due volte (vroom!) a volte anche tre volte (vrooom!) ma il frastuono che segue è poi abbastanza forte da coprire ogni altro rumore, e Gaijin è già ben oltre il terzo tiro di manopola del motore assatanato del suo cervello, per cui, dicevo, non si accorge affatto della nota di provocazione nel tono di Luca, anzi, in tutta probabilità non registra neppure il fatto che Luca abbia parlato, o il fatto che Luca sia lì, tanto è potente l’allucinazione che lo assale, che lo invade con la furia meccanica di parole dentate che si incastrano stridendo le une nelle altre, parole-macchina messe in moto da un omino invisibile seduto nella sala comandi del suo cervello-macchina, assordato dall’allarme rosso di mille sirene ma ancora capace di proiettare fuori di sé, con quei rottami di parole esplose, una visione.
Ora, se fosse Luca a dovervi riportare il contenuto di questa visione, non ci capireste nulla, in primo luogo perché Luca non è uno di quegli ascoltatori attenti che possono riportare le parole di altri come se le avessero pensate loro stessi, e in secondo luogo perché, come ho già detto più di una volta, il modo di parlare di Gaijin è tanto poco chiaro quanto poco sequenziale, per cui ci si può immaginare che quello che sto per descrivervi, ovvero ciò che Gaijin ritiene di poter far vedere alle due blechicche, non sia stato presentato nell’ordine che segue, né con una sintassi ordinata, né cronologicamente, ma piuttosto in una serie di frasi tagliate a colpi di tosse, insulti, scatti d’ira, sovrainnesti e subinnesti di fantasie su fantasie, e così via. Ma la ragione principale per cui io posso riportarvi questa storia e Luca non può è che io conosco la storia molto meglio di Luca, perché conosco Gaijin molto meglio di Luca, e so, quindi, che ciò che Gaijin vuole far vedere alle due blechicche non è niente di meno che un intero mondo maturato nel corso di mesi e anni trascorsi appoggiato coi gomiti sopra il muretto di piazza Amiani a guardare i passanti e a succhiare yogurt fuori da vasetti e bottiglie di plastica con le sue labbra enormi, o nel bagno della mediateca in sessioni di masturbazione rituale, e ancora sulle poltrone sempre della mediateca dove ha passato intere giornate a riversarsi in testa pagine e pagine di spazzatura giapponese raccattata chissà dove e maneggiata da chissà quanti infelici in cerca di fuga prima di lui – Akira, Blame!, Guyver, Zetman, storie di apocalissi, cyborg, corpi mutilati, sentimentalismo estremo ed estrema violenza, incubi sognati da abitanti di un’isola dove poco più di mezzo secolo fa si è manifestato con anticipo il volto della nostra inevitabile apocalisse a venire, fatta di ombre nere impresse a fuoco sui muri e città livellate nella polvere, profughi urlanti e ciechi e nudi dalla pelle arsa in incendi di elettroni impazziti, i cui occhi e cervelli si sono sciolti in una luce accecante, incubi di forme vegetali intagliate in fumo nero che germogliano oscene fin sopra il limite delle nuvole a gettare il seme della loro deformità in tutta la vita che vi cresce e crescerà attorno per chilometri e chilometri nei secoli dei secoli, amen. Un intero mondo, dunque, quello di Gaijin, che porta le tracce di questa apocalisse e che comincia nella distruzione dell’attuale, immaginato sulla base di un solo contrappasso elementare: che se il mondo in cui tutti gli altri vivono è per lui invivibile, allora un mondo invivibile per tutti gli altri deve necessariamente essere l’unico vivibile, per lui.
Il mondo in cui Gaijin possa farla vedere alle due blechicche, quindi, è un mondo apocalittico. La sua visione comincia dalla fine, con una serie di grandi esplosioni lungo la catena dell’orizzonte riflesse nello strabismo meravigliato e trepidante dei suoi occhi. Gaijin sa ed elenca quante testate nucleari riposano nei silos delle grandi basi militari delle varie superpotenze del mondo. Sa che, statisticamente parlando, pur mancandogli del tutto la comprensione dei più basilari concetti di statistica, in qualsiasi attività gestita da umani che richieda uno sforzo e un’attenzione tecnica crescente, come la giocoleria o la manutenzione e gestione di un arsenale nucleare, l’errore umano è, prima o poi, inevitabile, e sa che più il tempo trascorre più la probabilità dell’errore umano accresce, ovvero, più a lungo si giocolereggia più è alta la probabilità che caschino le palle, o i missili balistici intercontinentali, che sono troppi e ovunque, e a questo proposito Gaijin, pur non essendo in grado di richiamare date e nomi, cita il mai abbastanza celebre incidente del 1983, probabilmente nella versione inesatta riportata in qualche manga di Urasawa, in cui, poco dopo la mezzanotte del ventisei settembre, i satelliti russi Oko avevano registrato il lancio di un missile diretto contro l’allora Unione Sovietica, uno scenario a cui, secondo i protocolli, si sarebbe dovuto rispondere in un solo modo, ovvero con un immediato contrattacco che assicurasse la distruzione reciproca di entrambe le superpotenze, e quindi del mondo, e di cui non c’era ragione di dubitare dal momento che, dopo il primo, ben altri quattro missili erano stati rilevati dal sistema d’intercettazione russo, rendendo a tutti gli effetti la fine del mondo come lo conosciamo un evento sinistramente prossimo per tutti coloro che nel settembre del 1983, forse, facendo le prime chiamate col primo gigantesco telefono cellulare al mondo, oppure domandandosi quanto grave e quanto pericoloso fosse davvero il virus dell’Hiv, consapevoli o inconsapevoli che nel gennaio di quell’anno Arpanet aveva appena attraversato uno dei flag days più rilevanti della storia implementando come proprio protocollo il TCP/IP che avrebbe garantito la nascita di internet, oppure ancora facendo ciò che tutti gli esseri umani hanno fatto per centinaia di migliaia di anni sulle parti emerse della superficie di questa biglia blu coi suoi motivetti bianchi di nuvole disegnati sopra, e cioè nascere, crescere, cambiare, desiderare cose di cui non si avvererà che una minima parte, forse amare, e morire infine, godendo oppure detestando qualsiasi cosa fosse la vita nel 1983 sul pianeta Terra, rendendo prossima per tutti coloro che, cioè, vivevano, la realtà di una possibile estinzione totale della vita. E se oggi possono viverne inconsapevoli non è che grazie alla decisione del tutto autonoma, del tutto individuale e contraria all’evidenza della situazione e allo stato di necessità da essa chiamato in causa, come possono esserlo solo quelle mutazioni assolutamente casuali che avvengono in natura nel passaggio di materiale genetico da un essere vivente a un altro e che devono avvenire, su scala ridotta, sul piano del pensiero, la decisione, cioè, presa dal generale Stanislav Petrov dalle profondità del bunker Serpukhov-15 di considerare quello dei satelliti un errore di rilevazione e di verificare il suddetto errore con l’atto di pura fede di sperare che nessuna esplosione nucleare si verificasse in territorio russo nei momenti a venire, in quello stesso territorio dove Petrov dovrà pur aver avuto conoscenti, parenti, amici, amanti, figli o figlie, e che, tutto lasciava intendere, era sul punto di essere incenerito assieme coi suoi cari, le cui opzioni sarebbero state morire immediatamente oppure sopravvivere in un mondo di ustioni, cieli oscurati, aria e acqua tossiche per decadi, e poi morire, e che hanno evitato tutto questo solamente perché Petrov, seppellito tra gli edifici di Serpukhov-15 con le bolle paraboliche dei radar innestate sui tetti, sperduto nella sua foresta a osservare, per tutta la vita, i sommovimenti di uno spazio che avrebbe dovuto rimanere per sempre quieto e silenzioso, ha deciso di non rispondere con missili reali ai missili allucinati dai satelliti Oko. E ha avuto ragione. I missili non c’erano. Si trattava di un errore di rilevazione.
Dice Gaijin: più passa il tempo più diminuiscono i Petrov. Più passa il tempo, più si assottiglia la differenza fra missili reali e missili allucinati. Più passa il tempo, più aumenta il rischio che questi incidenti si ripetano, cosa che Gaijin si augura, perché una volta distrutta, per lui, una vita in cui non si può vivere, ecco che dovrà cominciare una vita in cui si può vivere, finalmente, e che è già sul punto di cominciare, perché l’incidente dell’equinozio d’autunno può ripetersi ogni giorno, può accadere ogni giorno, potrebbe star accadendo anche ora, assicura Gaijin a Gaijin, puntando il telescopio strabico del suo occhio nel cielo nero e pregando che le scie degli aerei di linea siano stasera scie di razzi venuti a sezionare il firmamento in due e a staccare il mondo da demolire dal mondo ricreato e regalato a lui. Nella devastazione che verrà, Gaijin sostiene che sopravviverà con mezzi leciti e illeciti, rubando tute antiradiazioni, cibo, armi, e compiendo altre azioni inverosimili del genere, che però sono forse un po’ meno inverosimili se si considera che Gaijin vive in strada da anni, sa come procurarsi cibo e armi e, soprattutto, è abituato alla violenza, a commetterla e a subirla, molto più di voi. Gaijin non si farebbe alcun problema ad ammazzarvi. E non dimenticatevi che, mentre voi provate terrore, panico o dolore per la perdita di qualcuno, Gaijin è più che altro contento, perché la maggior parte dei morti lo hanno sicuramente maltrattato in un modo o nell’altro e quindi, dalla sua prospettiva, meritavano il loro destino.
Questo è il mondo di Gaijin. Gaijin sa che cosa fare. L’ha letto nei manga. Sono anni che lo immagina. E infatti, mentre voi vi avventurate nella versione postatomica delle vostre città e cittadine e campagne, forse distrutte, forse danneggiate, forse addirittura scampate alla prima, tremenda doccia nucleare del pianeta, e mentre realizzate che forse sarebbe stato meglio non sopravvivere, perché i pulviscoli sollevati dalle esplosioni avvenute a chilometri di distanza sono ormai veleno perenne nell’atmosfera della Terra e erodono il codice genetico delle piante da raccolto tanto quanto il vostro, rendendo impossibile coltivare, oscurando il cielo per l’intera durata dei pochi anni che vi restano da vivere e che potrete prolungare solo al prezzo di terribili sacrifici e sofferenze, mentre voi vi arrabattate, insomma, Gaijin, che si è sempre arrabattato anche prima dell’apocalisse, non ha alcuna difficoltà a prendere la decisione che ha sempre preso quando si è trovato all’interno di un mondo per lui finito, esploso, inaccessibile, e cioè la decisione di andarsene. Quando finisce un mondo, basta cercarne un altro, e Gaijin ha sempre sperato in un altro mondo, ha sempre tenuto i sensori difettosi dei suoi sensi puntati su un altro mondo, e ora si sta dirigendo appunto lì, in un altro mondo, rintracciando coloro che, già da tempo, avevano deciso di abbandonare la Terra per il suo rosso vicino: Marte.
Gaijin conosce i nomi di tutti i programmi di colonizzazione di Marte e ogni giorno, nella sua immaginazione, ha compiuto per anni tutti gli addestramenti militari e scientifici necessari alla sopravvivenza su un altro pianeta, ma, se poi non dovessero bastare, Gaijin è certo di possedere la più fondamentale tra le abilità necessarie a ogni vero pioniere, ovvero la capacità di stare solo. Sì, perché prima dell’invenzione della propulsione a curvatura, fa notare Gaijin, il viaggio verso qualsiasi corpo celeste che non sia la Luna o un meteorite pericolosamente vicino alla Terra richiederà senza dubbio mesi, se non anni, sospesi all’interno del ristrettissimo spazio di una qualche navicella spaziale. Ma Gaijin non ha paura della solitudine. Nessuno è meglio equipaggiato di lui per affrontarla e stavolta, al termine della solitudine, lo attende un mondo nuovo. A seguito di qualche gesto plateale che rivela l’intimo valore di tutte le sue capacità a un epifanizzato magnate dell’Industria dell’Andarsene, Gaijin riuscirà senza dubbio, contro ogni pronostico, a essere selezionato come uno dei pochissimi esemplari umani adatti alla colonizzazione del pianeta rosso.
Nella sua immaginazione Gaijin è chiaramente il protagonista invincibile, invincibilmente motivato, del proprio stesso manga, ma qui bisogna rilevare che l’unico scenario in cui persone come Gaijin, Sesamo, Emiliano e forse persino Luca, ovvero uno scenario in cui senzatetto, pseudoartisti e disadattati di ogni genere potrebbero essere selezionati per una missione di colonizzazione di un altro pianeta è nel ruolo di cavie, per intenderci, non diverse dalla cagnolina Laika, primo animale spedito in orbita attorno alla Terra, probabilmente senza alcuna coscienza di ciò che stava accadendo e soprattutto del fatto di essere stata condannata a una missione senza ritorno, come lo saranno senza dubbio i primi colonizzatori di Marte. Cavie, dunque, di cui a malapena saranno ricordati i nomi (il vero nome di Laika, infatti, era Kudrjavka, Zhuchka o Limonchik, laika è semplicemente una parola per indicare certe razze di cani da caccia russi, siberiani o nordici), e a cui forse dedicheranno la versione digitale di qualche francobollo o una nota a piè di pagina in qualche libro di storia delle scuole medie, se ci saranno ancora libri o scuole medie, senza pensare al bambino o alla bambina che, immancabilmente, non avendo ancora soffocato il fuoco immaginativo che l’età adulta richiede di domare, immaginerà prima di tutto il panico claustrofobico della povera cosmonauta canina nel comprendere, forse grazie al proprio istinto, che per lei non è previsto ritorno, e che partire è come nascere, perché non si ritorna mai davvero ai luoghi che si abbandonano ma si attraversano invece sempre successivi stadi di esilio, innestati gli uni sugli altri nel passaggio da un presente all’altro, dalla vita sulla Terra alla vita nello spazio, dalla luce iridescente di sole delle nostre giornate a quella nera e muta del vuoto fra corpi celesti, in cui la navicella si raffredda gradualmente sempre di più, mandando il bambino o la bambina che la immaginano in iperventilazione, come sarà accaduto a Laika, mentre lo spazio interno tanto della navicella che della classe si riduce con l’esatta gradualità temporale richiesta per rendersi conto di ogni singolo stadio di asfissia.
Tuttavia Gaijin, pur consapevole della possibilità di questo scenario, è il protagonista, e dunque è insignito del potere di signoreggiare sui propri viaggi fantastici: è un superstite eterno, un profugo immortale. Gaijin sa che con le attuali tecnologie il tempo minimo per raggiungere Marte è di circa sei mesi e sa che, pur implementando nell’ipotetica navicella che dovrebbe condurre fin là lui e le altre cavie, tra cui, va detto, figurano sempre diverse ragazze di fattezze assimilabili a quelle delle due blechicche, ora sensibilmente più interessate a lui visto che gran parte della popolazione maschile della Terra è stata sterminata, anche se non ancora disposte a cedere alle sue avances, Gaijin sa, dice, che anche implementando nella navicella un sistema di gravità artificiale che sfrutti la forza centrifuga di un anello in rotazione costante, i danni riportati da periodi prolungati nello spazio sono comunque notevoli e vanno dalla perdita di densità ossea e massa muscolare, soprattutto per ciò che riguarda la muscolatura delle gambe e quella dorsale, ad aumenti di pressione sanguigna nel cervello che possono avere effetti imprevedibili: tutto questo Gaijin lo sa, come dicevo, e non ha alcuna paura. Non ha alcuna paura, nelle sue fantasie, quando il missile lo scaraventa lontano dalla superficie terrestre con un fragore di terremoto e un’artigliata allo stomaco paragonabile forse solo a quella delle più estreme attrazioni da parco dei divertimenti. Non ha paura dei sei mesi di isolamento e convivenza forzata nella navicella, che immagina come un misto fra un allenamento fisico e spirituale da guerriero giapponese e una interminabile sessione di onanismo spaziale in un ambiente finalmente capace di riciclare tutti i suoi fluidi corporei grazie a un sistema non troppo diverso da quello utilizzato decadi fa dal modulo Tranquillity della Stazione spaziale internazionale, producendo, a partire da essi, ossigeno e acqua dal vago sentore ittico. Gaijin sopravvive come ha sempre fatto: succhiando yogurt, ora da una cannuccia infilata in una borraccia accuratamente sigillata per via dell’assenza di gravità, leggendo manga e guardando fuori dagli oblò della navicella il ruotare di stelle finalmente visibili, finalmente diverse, promettenti l’esistenza di infiniti mondi oltre al suo, ognuna periferia delle altre in un ingioiellato e agghiacciante cielo nero senza centri, se non quelli onnicangianti stabiliti dai suoi occhi sempre fissi su due punti separati dello spazio, mai su uno.
Passano così i sei mesi, finché in lontananza non compare la sagoma cremisi e ombrosa di Marte, quasi una luna, prima, e poi man mano sempre più vicina, sempre più ampia, la nave comincia a tremare, una voce elettronica intima ai passeggeri di sedersi e allacciare le cinture e indossare i caschi per l’ossigeno calati dall’alto come mascherine in un volo di linea sul punto di sfracellarsi, mentre l’anello perfetto dell’orizzonte del pianeta si spezza e si spalanca, aprendosi in una linea che lenta si appiana, trasformando la sfera di un corpo celeste fino a poco prima distante in un paesaggio, in un mondo. L’atterraggio è come tutto il resto un’avventura, un rischio: il reusable launch system che avrebbe dovuto far discendere la navicella con leggerezza di libellula ha un malfunzionamento e sta a lui, Gaijin, effettuare l’atterraggio d’emergenza, iniziando così a guadagnarsi la stima delle due blechicche, a cui la sta facendo vedere, ora che tutto è nelle sue mani, e lasciando morire compagni che nel suo resoconto hanno le fattezze delle persone nominate soltanto in riferimento al loro ruolo nel mondo precedente, l’avvocato, il dottore, il poliziotto, indistinguibili tra loro se non per la divisa, come personaggi di una barzelletta, identici nelle loro cosiddette facce perbene, ora facce di vittime casuali o intenzionali nella storia abbacinante di Gaijin.
Eccoli sul pianeta rosso, dunque: Gaijin, le blechicche e qualche altro membro femminile della ciurma. Emergono, ombre infere, dal relitto della nave, disperati all’idea di aver perduto ogni occasione di ritorno, disperati tutti tranne Gaijin, che è venuto su Marte per vivere e inspira l’ossigeno all’interno della sua tuta spaziale immaginandolo aria fresca di un nuovo continente e non aria imbottigliata a casa sua, sul suo vecchio schifoso pianeta, mentre davanti a lui sbocciano per migliaia di chilometri solchi su solchi disegnati dal vento nella sabbia rossa delle immense rosse pianure del pianeta rosso, vergini di impronte e di sentieri. Il pianeta gli appartiene. La colonia di cupole luminose, disposte da una serie di spedizioni preventive a opera di droni e altre ciurme di defunti, non dovrebbe distare troppo. Ecco, già si intravedono nell’immaginazione di Gaijin i grandi igloo tappezzati di pannelli solari e ampie finestre esagonali, legati tra loro da tunnel d’argento e gallerie che innervano la superficie di Marte e scintillano ancora alla luce del sole, il nostro stesso sole, pensa Gaijin, il sole della Terra, nelle macchie ancora aperte sulla crosta opaca di polvere ocra e porpora che li ricopre.
Qui si nota, però, un difetto di produzione nella fantasia di Gaijin. Anche Luca se ne accorge, a modo suo, ascoltandolo. Si nota, cioè, l’ondulazione costante fra il delirio dei suoi trionfi possibili e la constatazione della decadenza di tutto ciò che lo circonda. Chi immagina utopie, generalmente, le immagina come poco più che blandi erogatori di tutto ciò che l’immaginante ama, dal denaro al sesso alle minuzie di altri beni materiali o spirituali, ma sempre improntate a una sorta di pigro edonismo di fondo, ridondante nel suo soddisfare immediatamente ogni desiderio, e che, risultando infine stucchevole, rivela senza errore la debolezza della fantasia dell’immaginante e spesso anche la povertà della sua vita quotidiana, poiché se tutto ciò che si desidera e si immagina come la miglior vita possibile è, alla fin fine, il corrispettivo di una vacanza dalla propria attuale esistenza, allora l’utopia non è che una fuga momentanea da questo mondo, pensata esclusivamente in relazione a esso e da esso dipendente in tutto, come ogni viaggio da cui si abbia la possibilità di ritornare. Questo genere di utopia, infatti, non implica in nessuno modo una fuga reale dal mondo di partenza: in essa ci si inventa il paradiso in relazione al presente, senza abbandonarlo davvero e mantenendovi ben insediata la propria fantasia, mentre chi davvero desidera abbandonare il presente per l’unico tempo oltre al presente che ha davvero una speranza di esistere, cioè il futuro, deve prepararsi a inventare non il paradiso, ma la vita. Circonvoluzioni, per dire: l’utopia annoia. Annoia progettarla e annoia abitarla. Non c’è niente da fare, in un’utopia. Non succede nulla, in un’utopia. Non si vive. A livello viscerale, questo lo sa bene anche Luca: sa bene che non c’è nulla di più noioso di immaginare un mondo in cui si può ottenere tutto ciò che si vuole con uno schiocco di dita o ascoltare qualcuno che si immagina un mondo siffatto, una società perfetta, perfettamente giusta, abitata soltanto da perfetti cittadini e perfetti lavoratori, morbo mentale di tutti i politici di tutti gli allineamenti in tutte le epoche, ed era questo, in realtà, che si aspettava di sentirsi descrivere da Gaijin, circa venti minuti fa, quando ha cominciato a rimettere insieme i cocci della sua visione sconclusionata del futuro, in cui però non c’è nulla di utopico.
Man mano che si raggrumano nella pasta coerente di un racconto le parole masticate a morte dai suoi molari marci, esse si manifestano, appunto, come un racconto, cioè come una serie di avventure fatte di una successione dialettica di ostacoli insormontabili e vittorie insperate, ovvero una vita in cui si alternano sempre almeno due voci. Una, di intelligenza diabolica, che congiura contro di lui e che, osservando ogni cosa da lontano, gli presenta di fronte una serie di prove, l’altra, più flebile, quella dell’homunculus Gaijin che abita dentro Gaijin e vive tutto questo dall’interno.
La prima, logorroica e ipertrofica a causa della continua attività immaginativa, dell’ipervigilanza quotidiana di chi, come Gaijin, percepisce ogni giorno l’incombere di una minaccia, la pressione di tutta una realtà esterna volta a rigettarlo fuori di sé, lo vedi, sembra sussurrargli, quello che ti faranno? Rideranno di te anche qui, sul pianeta rosso, tanto quanto hanno riso su quello blu. Guarda la colonia che hai raggiunto: è già rovina. Per quanto tu possa fuggire, qualcun altro è già fuggito qui prima di te. Hanno lasciato ovunque le loro tute consumate, gli avanzi di pasti abbandonati a metà, crepe e macchie nere sugli schermi dei computer. E tu insisti a tentare. Per chi? Per due blechicche? E accendi uno dei computer, osservi fasci di luce ricoprire in un ologramma sotto un’enorme cupola il globo del pianeta, una mappa sferica in tre dimensioni, solo per scoprire che tutti i nomi che speravi di poter dare (Valle di Gaijin, Deserto di Gaijin, Monte Gaijin) sono già stati affibbiati in un lessico misto di geologia e della solita mitologia greca, proprio come in quei libracci di fantascienza che ti spiluccavi in biblioteca, e che la vostra base è collocata nella maglia di Ismenius Lacus, quadrante compreso tra i trenta e i sessantacinque gradi di latitudine nord e gli zero e i sessanta di longitudine est, nella regione del Deuteronilus, poco più a nord dell’Arabia Terra. La zona è stata scelta per ragioni meramente pratiche, elucubra la voce continuando a concepire un paesaggio attorno all’homunculus Gaijin nella fantasia di Gaijin, per la presenza di ghiacciai capaci di provvedere al fabbisogno d’acqua, necessario alle prime operazioni di terraforming, e tu sei qui a preparare la vita d’altri, proprio come ci si aspettava da te sulla Terra quando ti hanno lasciato pulire i bagni in mediateca per tre mesi, e non c’è nulla di epico, nulla di nuovo, nulla di eccitante in questo deserto rosso punteggiato solo di crateri e fallimenti di equipaggi precedenti. I Deuteronilus Colles non sono forse proprio come le colline di casa tua?
La seconda voce si incammina, sperduta, in mezzo a queste provocazioni evocate in forma di paesaggio. Come sono morti gli abitanti della base? Che cosa ha fatto fallire le missioni precedenti? Nel racconto di Gaijin cominciano a manifestarsi una serie di misteriose ripetizioni, colori, apparizioni di ombre separate dai corpi, voci che non appartengono a nessuno dei personaggi finora menzionati, pensieri separati dal contesto fin qui descritto, soprannomi parlanti, particolari di una familiarità terrestre balenati attraverso la patina opaca di polvere e sporcizia che ricopre le superfici riflettenti della base, infiltratisi pian piano nella routine di esplorazioni, esperimenti, e soprattutto (finalmente, per Gaijin) sesso condotto in una rosa illimitata di posizioni, ambienti e combinazioni di partner, senza nulla a che fare con la supposta rigidità del dovere di rinfoltire le fila della specie, che è uno degli obiettivi imprescindibili della missione.
Ecco, ecco, è qui il culmine della storia, immagina Luca: era tutto finalizzato a questa pruriginosità squallida da video porno guardato a singhiozzi, era tutto qui ciò che Gaijin voleva far vedere alle due blechicche, nella sua immaginazione andata a male, tutto qui: qualcuno mi tocchi il cazzo, per favore. Fantasie su fantasie, un intero pianeta scardinato dalla sua orbita e trascinato fin qui, nel cortile della mediateca già soffocato da una notte precoce, tutto per soddisfare la bieca frustrazione sessuale di un uomo che spende molto, molto tempo da solo. Luca vorrebbe pensarlo. Lo penserebbe, se la storia desse segni di essere effettivamente vicina a una conclusione. Ha scopato, no? Non gliel’ha fatta vedere, ora? Invece no. La storia continua, spiraleggiando verso fini ignoti. Ecco cosa farei, dice Gaijin, descrivendo qualche scena grafica tratta da uno dei suoi anime, ma lasciando allo stesso tempo indovinare qualcosa che lo distrae, qualche membro dell’equipaggio che lo interrompe con una richiesta, o di nuovo qualche ombra in movimento fuori dalla base, o ancora qualche evento meteorologico di proporzioni estreme, una tempesta, sì, una tempesta dove le ombre sembrano ululare e moltiplicarsi, dove gli occhi che lo guardano dai riflessi opachi sembrano volerlo accusare di qualcosa.
Gaijin vagabonda con un Mars rover adibito a dune buggy. Si autoimpone una serie di missioni esplorative che nessuno gli ha ordinato di condurre: nessuno avrebbe potuto, si deve specificare, visto che Gaijin ha interrotto tutte le comunicazioni con la Terra dopo la prima tempesta, simulando, o meglio, causando a colpi d’ascia, un guasto alla strumentazione. I vagabondaggi lo conducono sempre più lontano dal campo base, sempre più lontano dalle due blechicche, ormai diventate personaggi del tutto secondari, sostituite invece dalle ombre che camminano nelle tempeste, sempre più sul punto di diventare, invece, personaggi a tutti gli effetti quasi viventi, insiste Gaijin. Persino dalla Terra si possono distinguere quelle ombre nelle tempeste di Marte. Non c’è nulla che si muova sul pianeta oltre alle tempeste e alle ombre nelle tempeste, nulla di vivo nelle decine di colonie in rovina lasciate da equipaggi precedenti, maestose come città sognate solo in parte e poi abbandonate alla deriva nel deserto prima che qualcuno avesse trovato il coraggio di abitarvi, e dove il vagabondo Gaijin riconosce suo malgrado tracce di vecchia vita terrestre: bandiere annerite, lettere in cirillico su pannelli di comando senza più energia, ideogrammi cinesi a solcare in tratti intricati le superfici esterne di sonde precipitate e container di rifornimento mai consegnati. Non ci sono cadaveri né scheletri, nessuno con cui parlare, vivo o morto, né cibo da succhiare fuori da confezioni invulnerabili al tempo, riflette Gaijin dentro la sua fantasia, con sempre meno ossigeno nella sua tuta da astronauta e sempre meno fiato per raccontare la sua storia dentro il cortile della mediateca, mentre entra nella fase finale del suo delirio visitando una colonia di cui in qualche modo riesce a riportare le coordinate precise, parlando con Luca, come se le avesse studiate e mandate a memoria con il massimo sforzo di cui sia capace la sua mente, che Luca non ricorda, ovviamente, ma io, per fortuna, sì.
Attraversa l’enorme canyon delle Mamers Valles, formato, si pensa, da lava o acqua, da gigantesche esplosioni o gigantesche alluvioni. Una colonia gli compare di fronte nel finale del racconto, durante un’ultima terrificante tempesta di sabbia. Vi approda, ultimo straniero, mai pago delle sue allucinazioni, attraversando prima l’enorme portale arcuato nelle mura che somigliano a rovine antiche nell’erosione del vento di Marte, e poi la pianta a scacchiera perfetta degli edifici abbandonati. A che servivano le mura? Non ci sono invasori, su Marte. Solo turbini che si avvoltolano nelle vie vuote, ululando, e svaniscono nel nulla in un enorme spiazzo dove le pareti esterne di un edificio di due piani si rifiutano ancora di crollare e le ombre guardano Gaijin dalle finestre cerchiate di nero, dalle sale senza pavimenti, facendo eco all’esplosione silenziosa che ha travolto l’edificio dall’interno piano dopo piano, parete dopo parete, vaporizzando tutta la vita della colonia in un istante, esfoliando dalle case la pelle morta di stucco e finestre, essiccando gli abitanti in ammassi granulari disgregati nella polvere di Marte. Gli alberi secchi non lo proteggono dalle lame lontanissime del sole attraverso il velo fine, scorticato, dell’atmosfera di quel pianeta scuoiato vivo, rosso dei suoi tessuti muscolari snudati.
La tempesta raggiunge Gaijin col fragore di un’esplosione, lui trova riparo dietro un muretto mentre particelle microscopiche bombardano il suo corpo attraverso la tuta spaziale, grani rossi, gialli, arancio e blu, riflessi ovunque, e nel frattempo una delle ombre si allontana stringendosi un poco nel vento nero che l’avvolge. C’è qualcuno, pensa Gaijin, a una frase di distanza da me, a una parola di distanza da me, qualcuno mentre il cielo scoppietta di razzi esplosi alla partenza e atterraggi d’emergenza mancati, qualcuno che senza saperlo mi ha inseguito fin qui nella mia allucinazione d’inizio-vita, di rinascita, qualcuno che come me attraversa da solo questa desolata periferia del sistema solare, e che era qui prima di me e si è accorto di me.
Pozzanghere? Piove nella fantasia di Gaijin? Com’è possibile? Si chiede Gaijin nella fantasia di Gaijin. Piove su questo pianeta spazzato dalla polvere? Su questo pianeta senza atmosfera dove sono rimaste soltanto le vasche vuote di oceani disseccati e grumi di ghiaccio rappresi ai poli a testimonianza che l’ultima pioggia, qui, se mai c’è stata, è piovuta milioni di anni fa? Ma è una pioggerella inequivocabile, questa, conosciuta, di quelle che fanno scintillare il mondo, una pioggerella di casa che lava le superfici deflagrate della vecchia colonia. Piove come piove a casa, anche lì, come pioveva la notte in cui avrei potuto seguire il consiglio dei Giullari e farlo, e forse l’ho fatto, incoraggiato anch’io da un cielo scoppiettante e da un cambio di data che ancora una volta, come tutti i cambi di data, pur promettendo di significare qualcosa, non avrà significato nulla, l’ho fatto perché l’allucinazione di quel significato promesso sarà bastata, da sola, a far sembrare tutto altro, tutto nuovo, tutto bello. Un nuovo mondo di specchi bagnati in cui si riflette scoppiettante il rosso del cielo notturno chiassoso di una festa a cui non partecipo, ma a cui, ecco, stanotte, sento quasi che forse potrei partecipare, forse stanotte c’è qualcuno che aspetta me, nel suo cappotto-accappatoio nero, e io dovrei solo suonare il citofono, dovrei farlo, lo hanno detto anche i Giullari. In fondo posso. Conosco tutti gli indirizzi, perché almeno una volta ho seguito fino a casa ciascuno di voi, quando non mi vedevate. E allora sono andato, allegro come un Gaijin sul suo Mars rover saltellante, barcollante come un Gaijin che passeggia leggero nella terza frazione del proprio peso trattenuto debolmente per le suole dei moon boot alla superficie di Marte, sono andato col fiato che mi bruciava in gola come a un Gaijin ubriaco, pensando a quello che avrei detto quando mi avesse aperto la porta coi due girasoli giudicanti e azzurri dei suoi occhi impauriti di nomade immortale, qualcosa sulle linee di uno “scusa” e di un “senti”, scusasenti, avrei chiesto una cosa qualsiasi, qualunque cosa, come fanno tutti gli altri ragazzi nel cortile, tutti quelli come Luca, senti, scusa, una cosa qualsiasi, già leggevo il nome sul citofono nero, preciso in mezzo ai suoi sosia spettrali sdoppiati dall’alcool, senti, scusa… ce l’hai… scusa… una… ce l’hai una sigaretta…? Senti. Ce l’hai…? Senti. Scusa. Senti.
Il telefono di Luca vibra, a questo punto, seguendo un trito cliché filmico, proprio mentre la storia di Gaijin nella sua confusione sta forse tentando di raggiungere un culmine di qualche tipo, e si avvera il miracolo biblico della resurrezione di un Lazzaro paralizzato nella sua fossa: Luca sente ritornare la forza nelle gambe con impeto elettrico, trasmessa direttamente per flusso simpatico dalla vibrazione dello smartphone, e subito si alza, scatta in piedi palpeggiandosi le tasche alla ricerca dell’apparecchio, lo trova, per poco non lo fa cadere, guarda lo schermo: numero sconosciuto.
«Scusate, devo rispondere».
Mente, sapendo di mentire. Luca non risponde mai a numeri sconosciuti. Stasera, però, lo fa: ha un gran bisogno di abbandonare il festival di allucinazioni in cui è stato coinvolto in questo particolare giovedì di novembre, e il destino lo assiste.
«Pronto? Parlo con Luca Longhini?»
«Sì, sono io».
Luca lascia il cortile e rientra in mediateca. Una vampata d’aria calda lo infebbra mentre passa rapido tra i tavolini quasi vuoti del bar.
«Sono — —, l- -amo – un pr– de- –dità».
Non si capisce un cazzo: una tempesta di rumori copre la voce di signora che gli parla dal microfono dello smartphone. Nell’atrio Emiliano suona al pianoforte una melodia classica conosciuta, una di quelle che Luca deve aver sentito in qualche film o pubblicità di automobili, ma la suona picchiando sui tasti con violenza parodistica, circondato dai Giullari e dai loro due o tre amici ora distribuiti tra due tavolini del caffè come le pensose e isolate sagome di un dipinto naturalistico del settecento, dove l’ampiezza del paesaggio che si spalanca attorno alle figure è tanto esagerata da lasciar sempre immaginare una folla che non c’è, mentre le note musicali agitano il vuoto in cui le figure si aggirano con la solitudine sospetta e un po’ canaglia delle persone mattiniere, come dovevano esserlo le persone nel settecento, appunto, visto che di notte non c’era luce elettrica per raccontarsi storie nei cortili, a novembre, la solitudine sospetta di quei bari, insomma, che vogliono prendersi sugli altri il vantaggio delle ore per viversi una vita all’insaputa di tutti. I Giullari non ridono più: ascoltano, un gomito poggiato al tavolino, un altro pendulo dallo schienale della sedia, due paia di gambe accavallate e la punta di una sola scarpa di pelle nera, mobile e levata in aria a seguire le note trionfalissime del pianoforte. Dalla porta del cortile rientrano intanto Sesamo e Gaijin, mentre Luca corre verso l’uscita della biblioteca.
«Scusi, aspetti un attimo che… No, no. Un secondo. Sto uscendo che sono… mi dia un attimo che esco. Non la sento con tutto questo casino».
«Ci sono molti principi!» gli grida dietro una voce. «E ce ne saranno mille altri, ma c’è soltanto un –»
La porta sbatte fuori il nome che qualcuno stava tirando contro la schiena di Luca in fuga per sentire l’annuncio di qualche buona notizia delle sue che a noi non interessa nemmeno più di tanto. Cosa sarà mai? Un’altra nuova di quelle che possono averlo spinto a giurare cose del tipo: quanto è vero Dio, io ho chiuso con questo posto, niente più mediateca, niente più resoconti di sogni di Emiliano e niente più teatrini satanici di Sesamo, e soprattutto niente più deliri di Gaijin e niente più euro del caffè a Gaijin e niente più sigarette gratis a Gaijin, niente più signore che sembrano ragazze e ragazze che sembrano signore, niente più cazzate del genere, si sta probabilmente dicendo Luca mentre si promette di lasciare la mediateca per sempre come un eroe tragico, senza tenere conto del fatto che fra meno di cinque minuti sarà comunque obbligato a rientrare per recuperare lo zaino che ha dimenticato in M9.
Che peccato, proprio ora che era così vicino al suo primo venerdì da mesi! E invece no, anche lui dovrà tornarsene in mediateca, alla fine, nonostante i giuramenti e nonostante qualsiasi cosa gli abbiano detto al telefono, e, forse imprecando sotto le ultime note di pianoforte che si deformano nella spirale squadrata delle scale, si accorgerà, saggiando la secca e indisturbata profondità dei guaiti gommosi e sinistri prodotti nell’incontro tra la suola delle sue scarpe e il pavimento del corridoio, di essere per la prima volta completamente solo al piano superiore della mediateca, e di star ascoltando per la prima volta il suono di un ambiente in cui non è rimasto alcun essere umano se non lui, non uno studente, non un visitatore in cerca di libri o dvd, non un bibliotecario o una bibliotecaria passati negli ultimi minuti ad avvertire i ritardatari che la mediateca Montanari chiuderà fra cinque minuti, si pregano gli utenti… no, non uno di loro sarà rimasto, a quel punto, e Luca sentirà finalmente la sensazione trasmessa alla pelle quando si attraversa un’aria che non oscilla ricircolando nei respiri di altri esseri viventi, col suo freddo irrespirabile fatto di aghi che non si limitano a trafiggere il corpo ma scendono più a fondo, pungolando il sangue e il cervello e, in esso, i pensieri, in cui il corridoio del primo piano ora pare allungarsi illimitatamente nel vuoto da incubo di quella solitudine, espandendo gli spazi tra M7, M8 e M9 in distanze oceaniche. Le lampade andranno spegnendosi una dopo l’altra mentre la lastra stramazzata del cielo rifletterà l’incandescenza elettrica delle luci moribonde della città, proiettata in bande rosse striscianti fuori dalle soglie delle sale studio a striare il corridoio. Luca sentirà la resistenza acuminata dell’aria, camminando verso M9. Avrà paura di avanzare oltre in quella solitudine che non è un vuoto. Non è un silenzio. Non è un’assenza. Ma ormai, catturato dalla forza d’attrazione della stanza oltre ogni possibile velocità di fuga, vedrà il proprio corpo allungarsi, stirarsi, avvitarsi in un filamento destinato a compiere la sua curva vertiginosa e inevitabile attorno al taglio dell’angolo d’ingresso della soglia di M9. Il taglio dell’angolo si avvicinerà, spingerà Luca verso lo squarcio aperto dell’entrata, e… Ma alla fine che ne so, io, di quello che potrebbe pensare uno come Luca? Io Luca neanche lo conosco. Sento a malapena cosa dice in mezzo a tutto questo casino, figuriamoci se posso capire cosa sta pensando o immaginando mentre esce.


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Cesare Sinatti, nato a Fano nel 1991, ha studiato Filosofia all’Università di Bologna e ha conseguito un
dottorato in Filosofia antica all’Università di Durham. Nel 2016 ha vinto la XXIX edizione del premio Italo
Calvino con il romanzo La Splendente (Feltrinelli 2018). Alcuni suoi articoli e racconti sono apparsi su «La
Balena Bianca»
, «Altri Animali» e «Il Rifugio dell’Ircocervo».