Introduzione
Mi ci è voluto un po’ prima di capire che questo intervento si sarebbe incentrato sulla singolarità dei soggetti in relazione alla didattica della letteratura, ma forse avrei dovuto immaginarmelo, considerando la frase da cui era nato, che faceva così: non credo mi convinca, ultimamente, l’idea che la responsabilità dell’incomprensione di un testo sia da imputare integralmente al lettore, o all’autore.
Lo stesso vale per l’inefficacia, no? Credo l’idea non mi convinca perché, da qualunque lato la si guardi, sminuisce il fatto che i lettori e gli autori hanno ognuno una loro storia di relazione ai testi – storia che non determina solo il saper comprendere il significato di parole, frasi eccetera – ma anche l’intensità con cui riusciamo a simulare, internamente, l’esperienza che il testo ci offre.
Partendo dall’ipotesi che quest’ultimo parametro, ossia la sensibilità al testo come macchina per generare simulazioni, possa dipendere da fattori sia interni che esterni al soggetto, vorrei riflettere con voi sul fatto che esistono tante versioni di un testo quante letture dello stesso si compiono nel tempo, il che è un fatto banale, ma forse dovremmo concentrarci sul l’implicazione che non tutti (e non sempre) sono nelle condizioni di attraversare un testo traendone un’esperienza davvero significativa.
Non mi sto riferendo solo qui ai gusti, alle affinità, o alla valutazione ideologica – ma più basilarmente al grado di capacità di simulazione filmica, o virtuale se vogliamo, del testo attraverso la nostra cognizione. Forse, dopo una piccola digressione, diventerà tutto più chiaro.
Sensibilità e discipline speculative
Prima di continuare, vorrei riportare tre aneddoti, di cui due autobiografici, che mi hanno convinto del fatto che la pratica assidua di una disciplina speculativa determini, nel lungo periodo, una modificazione non soltanto comportamentale del praticante, ma anche fisica e soprattutto percettiva, in senso molto ampio:
1.Musica classica e bioingegneria
Dai dodici ai ventisette anni ho studiato il movimento e la percezione del mio corpo, dei suoni e delle loro strutture, della contrazioni, delle ritmo del respiro, delle attivazioni muscolari volontarie e involontarie. Per quindici anni ho cercato di migliorare la mia postura nel suonare la chitarra, la mia mobilità articolare, la prontezza dei miei riflessi e della mia memoria, la mia capacità di concentrazione continua e il complesso dei miei automatismi. Dovevo farlo: progredendo nel mio percorso musicale, mi trovavo continuamente di fronte all’incapacità di produrre spontaneamente i suoni e i movimenti che desideravo.
La mediocrità del mio virtuosismo e, in generale, la medietà del mio talento musicale, mi hanno costretto, a volte, a imparare a riconoscere differenze fra suoni che non ero minimamente in grado di sentire. Immaginate: inizialmente, suonando un passaggio di una forma musicale più ampia, si testano cinque versioni che sembrano tutte “giuste”, il giorno dopo se ne salvano tre, quello dopo ancora soltanto una sembra quella possibile.
Cosa è successo in questi quindici anni? La mia tolleranza all’incoerenza dello sviluppo formale si è abbassata, la mia capacità di movimento e di percezione sonora è aumentata, sono più sensibile alla singolarità di un significato sonoro ben espresso.
Non serve tornare indietro di quindici anni: se anche il me di cinque anni fa e il me di adesso potessero assistere allo stesso concerto non si capirebbero perché, prima di tutto, la loro esperienza differirebbe sul piano percettivo, sensoriale e sensibile.
2. Maggiore risoluzione = nuovi layer di significato
Un amico, chiamiamolo Marco, lavorava in fabbrica e si è trovato da un giorno all’altro assegnato a un macchinario che non aveva mai utilizzato. Un operatore anziano era stato incaricato di istruirlo all’uso della macchina, ma fra lui e Marco erano emerse subito delle incomprensioni. Dove il vecchio sentiva una quantità enorme di suoni e frequenze differenti, corrispondenti ad altrettante fasi della produzione del macchinario, e quindi ad azioni da compiere, Marco sentiva solo un brusio indistinto, come di vecchia lavatrice con gli attacchi epilettici.
Con il passare del tempo, l’orecchio di Marco comincia a fare chiarezza: capisce quale parte della macchina produce quale suono, e quale suono richiede quale intervento. Se Marco avesse rifiutato gli inviti del vecchio ad ascoltare meglio, mandandolo a quel paese, probabilmente sarebbe caduto in qualcosa in cui cadiamo tutti quando giudichiamo basandoci su conoscenze indirette e/o superficiali: uno snobismo dal basso.
Lo snobismo dal basso, come approccio conoscitivo populista, scarica la responsabilità della noia e la frustrazione dell’incomprensione sempre e soltanto verso l’esterno. Negando il valore dell’esperienza e la sua capacità di cambiare la nostra percezione del mondo, lo snobismo dal basso ci nega un vero spazio speculativo, dove sospendere il giudizio sull’oggetto e, attraverso la ri-frequentazione dello stesso, cercare di capire se la mancanza di empatia non sia forse da imputare a una complessità che non si è ancora in grado di processare (o magari no, chi lo sa).
Non voglio riproporre l’adagio sull’ignoranza dei lettori medi, assolutamente, cerco solo di fare pace con l’idea che non tutto ci può colpire immediatamente e, soprattutto, che qualcosa di grande potrebbe non riuscire a raggiungerci.
3. tot pesi, tot misure
Da circa un anno ho chiuso con la musica classica e ho iniziato col bodybuilding, equamente: un’ossessione per un’ossessione. Nei confronti di questa disciplina speculativa avevo molti pregiudizi, anche legati all’abuso di medicinali e alla volgarità diffusa, al maschilismo e alla rozzezza della sua fanbase (attributi, questi, che purtroppo non mi sento di smentire in pieno).
L’aspetto più affascinante di questa disciplina è proprio quello propriocettivo: il bodybuilder non punta a diventare forte ma a contrarre al meglio e più armoniosamente possibile le sue fibre muscolari, quindi a migliorare la sua connessione mente-corpo.
La bellezza assolutamente relativa e convenzionale a cui punta non è sempre disponibile e statica, ma dipende dalla capacità di posare in un certo modo (e quindi: percepire il proprio apparato locomotore in un certo modo), bruciare il grasso corporeo in un certo modo, modificare la propria struttura fisica secondo specifici parametri e nei tempi adatti ad arrivare in “condizione” al momento dell’esibizione.
Poche altre discipline tradiscono quanto questa l’importanza di una “buona genetica” e, specularmente, della disponibilità a rendersi bio-cyborg nel tentativo di forzare i limiti della stessa – tutto per fedeltà a un’immagine inattuata di sé, a un desiderio.
Salute a parte, la musica classica e il bodybuilding hanno molto in comune: prima di tutto la questione del talento, quella miscela di privilegi che permette a qualcuno di fare una cosa più facilmente, e non passando dalla coscienza o dal ragionamento.
Si tratta di un superpotere comunissimo. La miscela del talento dipende da un buono stato economico, sociale, genetico, di genere, di capitale culturale ed esperienziale, di locazione geografica, di conoscenze, di salute mentale e fisica: praticamente da ogni fonte di bene, o di potere.
Quando ammiriamo un campione di una qualsiasi disciplina speculativa, noi stiamo in realtà ammirando un allineamento astrale raro, una serie di coincidenze che, verificatesi, elevano un umano a qualcosa di un po’ diverso. Il talento è quello che permette ad alcuni di identificarsi con la propria ossessione totalmente, senza però esserne sopraffatti, perché per alcuni è banalmente più facile.
Il talento permette di non rischiare di perdere l’amore per ciò che si fa. Accettare la disparità del talento come privilegio significa fare i conti con la possibilità che, in alcuni casi, non vedremo mai le disuguaglianze appianarsi senza sforzi o conflitti. Sforzi o conflitti che potrebbero non bastare, perché le disuguaglianze eccedono rispetto alla sfera dell’umano e del sociale.
E quindi
Con questa lunga digressione io speravo, in realtà, di spingerti a domandarti se la scrittura creativa e, in particolare, la produzione letteraria, non sia proprio una disciplina speculativa in cui a dominare sono il talento come privilegio, il tempo e l’esperienza nei termini di cui sopra.
Accettare le nostre disuguaglianze di fronte alla letteratura significa accettare che tutti hanno avuto un’iniziazione diversa, il che non significa soltanto accesso o meno alla Grande Tradizione (come vorrebbero gli snobisti dall’alto, tipo Eliot, che salvano solo chi si salva comunque) ma, in generale, una storia più o meno ricca di frequentazione di testi e di rappresentazioni, una formazione più o meno avanzata nella capacità di vivere le storie e le voci letterarie immersivamente.
Se la forma letteraria reagisce così diversamente di fronte ai vari lettori, e chiunque abbia avuto la benché minima esperienza didattica in questo senso credo possa confermarlo, occorreranno alcune condizioni per cui un’esperienza soddisfacente di un testo si verifichi.
Se le cose stanno così, e io vorrei dare credito a questa ipotesi, allora dovremmo abbandonare la schizofrenia dello “scrivo per il pubblico/scrivo per la critica”, perché la critica e il pubblico sono categorie troppo generali per dare conto dell’orgia della ricezione, perché un lettore ieri scettico oggi può convertirsi, perché siamo tutti figli della nostra condizione materiale, nel senso più ampio possibile, e dei nostri limiti.
Sarebbe bello, credo, accettare di non poter giudicare tutto immediatamente, rivendicare degli spazi di studio (nel senso in cui si studiano due animali)
Se capiamo che per imparare a sollevare un bilanciere da 100 chili agilmente o suonare una Sonata di Mozart a memoria serve del tempo, dobbiamo capire che anche la produzione e la ricreazione in lettura di mondi letterari è un’attività praticissima, che fa affidamento su una serie di hardware psico-fisici e automatismi che non si riescono a sviluppare nell’immediatezza dell’”ho capito/non ho capito”, ma solo attraverso la reiterazione di esperienze significative, esperienze che modificano la nostra percezione profonda.
Una cultura esperienziale è, dunque, una cultura della pazienza nei confronti della frustrazione, dell’umiltà e della sospensione del giudizio, della relativizzazione delle proprie sensazioni e delle proprie narrative, con lo sguardo teso a un di più di chiarezza.
Per l’autofestival a Cucullaro ho proposto di far leggere all3 mi3 compagn3 L’impensato, libro di Hayles uscito per EffeQu, proprio perché penso possa spiegare bene come funzioni il lavorio dei nostri circuiti inconsci, come regolino le emozioni e l’immagine del mondo senza che ce ne accorgiamo, e fanno di noi macchine singolari, diverse non solo nell’interpretazione, ma nell’esperienza stessa della realtà.
Infine, se è vero come dice l’autrice che certi geni e certe capacità si attivano soltanto al verificarsi di alcune condizioni ambientali, che triggerano ormoni capaci di risvegliare alcune basi azzotate del DNA, è tempo di spostare il problema delle forme d’arte complesse dal campo della produzione al loro proprio campo: quello della didattica della percezione artistica.
Una didattica da pensare non solo come l’utopia di accompagnare ognuno a uno stato in cui la lettura del testo complesso diventi un piacere, ma come disciplina speculativa che, senza traumi, ci esponga costantemente alla difficoltà, all’incomprensione, alla frustrazione, e quindi al superamento di queste difficoltà frustrazioni e incomprensioni, termini che non hanno accezione qualitativa.
L’obiettivo di questa disciplina, infine, non può essere quello di ottenere un distintivo culturale, né di formare una qualche identità personale, nazionale o altro, e neanche di armarci rispondendo a un principio di utilitarismo competitivo. L’obiettivo da riporre al centro deve, per me, essere quello di estendere a una comunità sempre più ampia il piacere che si prova nell’aumentare la nitidezza con cui vediamo una fetta di mondo, reale o finzionale che sia, per il puro gusto che il vederla ci commuove.
Scritture Vive: un p.p.s
Retrospettivamente, quello che abbiamo tentato a Bibbiena con la seconda edizione del festival Scritture Vive si pone nella scia di questa riflessione: durante gli eventi del 2 settembre la presentazione aumentata di lay0ut è stata continuamente hackerata dagli interventi musicali non programmati di Zorah, le nostre voci in autotune ci hanno permesso di riascoltarci leggere e parlare come se fosse la prima volta. Ci ha emozionat3, e mi piace credere che la nostra emozione ha contagiato chi non era sul palco del Teatro Dovizi.
Poi siamo scesi, abbiamo ascoltato le testimonianze di alcun3: cosa li spaventa, cosa li definisce, cosa li condiziona e come cercano di riprendersi la loro agentività. Alla fine sul palco ci sono saliti Zorah e $amo per suonare, ci hanno fatto smettere di pensare perché stavamo ballando, cantando, anche se sullo sfondo, come scenografia, c’era il memento mori di Mirko Cendali, improvvisato.
Il cartaceo, la letteratura, la musica, l’arte: sono pretesti, quello che ci interessa davvero è immaginare e vivere una vita diversa. A Cucullaro sono emerse le nostre ferite, a Bibbiena il nonostante, e siamo pronti a cominciare questo nuovo anno senza scheletro, cercando di far vedere cosa diventiamo, dove ci portino queste aperture che non vogliamo lasciare.