Quel suo senso cifrato della fine: 4 poesie da “Ozone Journal” di Peter Balakian

Ozone Journal è il titolo della seconda sezione dell’omonima raccolta di Peter Balakian, con la quale l’autore armeno-americano ha vinto il premio Pulitzer nel 2016 in quanto testimonianza delle «perdite e tragedie che stanno alla base di un’era globale di pericolo e incertezza» (traduzione mia).

Nei cinquantaquattro frammenti (consecutivi ma autosufficienti) della sezione, Balakian ripercorre la propria esperienza durante lo scavo dei resti delle vittime del genocidio dei suoi antenati armeni nel deserto siriano insieme a una troupe televisiva, nel 2009. A questo ricordo se ne affiancano poi altri, per mezzo di un montaggio apparentemente privo di coerenza logica che spazia attraverso una vasta gamma di ambientazioni spazio-temporali: New York durante la crisi degli anni ’80, il divorzio, le prime avvisaglie delle devastanti implicazioni del cambiamento climatico, l’avvicinarsi della fine per un cugino affetto da AIDS. La stratificazione storica si fa serrata, i confini si assottigliano e le diverse voci e immagini sembrano fluire l’una nell’altra («The present kept sliding into David’s past, / unraveling through drip-drugs and sedatives»), attorno alla ricerca di un significato di fronte alla perdita e alla catastrofe generalizzata, individuale e collettiva («Memory was someone’s history: private, political, social»).

Una ricerca che l’autore sembra portare avanti da tempo e su vari fronti: di Ozone Journal si può senz’altro individuare un precedente nell’indagine del panorama post 11 Settembre condotta dalla precedente raccolta Ziggurat (The University of Chicago Press, 2011). Nel testo A-Train/ Ziggurat/ Elegy Balakian traccia un parallelo tra lo Ziggurat di Ur (torre templaria sumera situata nella parte meridionale dell’attuale Iraq) e il World Trade Center, illuminando così al contempo splendore e portata distruttiva dell’operato umano. La frammentarietà della struttura e del linguaggio riflettono qui con forza un panorama contemporaneo di macerie non semantizzabili («Days I sank in rubble, and the noise / drove out of my head the most basic words»).

In questa raccolta l’autore, «anche se si concentra sul suo rapporto con il mondo, evita di indulgere in monologhi, adottando invece un andamento giornalistico per abbozzare frammenti di scene che sembrano riprese da telecamere con obiettivi incrinati» (traduzione mia).

Questo estratto della recensione di Sadiq Alkoriji a Ziggurat[1] ci riporta immediatamente alla modalità di costruzione messa in atto in Ozone Journal, a riprova del fatto che l’opera si pone coerentemente sulla scia di un percorso già intrapreso («Walking past the San Remo / that day, I was beginning to see history / as images filtered through cracked glass»).

In concomitanza con la pubblicazione di Ozone Journal, Balakian pubblica anche la raccolta di saggi Vise and Shadow (University of Chicago Press, 2015) e, come spesso accade, la produzione saggistica interseca e illumina quella poetica. In Vise and Shadow – prendendo in considerazione, tra le altre, le opere di Yeats, Crane, Levi, Dylan, Rauschenberg – l’autore esplora i modi in cui la poesia può affrontare il disastro senza cadere nel didascalico, in cui secondo il poeta l’immaginazione poetica può tentare di afferrare l’esperienza seguendola da vicino come una compagna fedele (un’ombra).

Ozone Journal si pone allora al centro di una ricerca ampia e trasversale che va ben oltre la sola testimonianza storica e  il topos della contemplazione delle macerie. Consiste invece nel tentativo di cogliere l’occasione di «risemantizzare macerie immense di sensi passati e trasfigurati dalle immagini» la cui urgenza mette in luce Federico Vercellone nel suo Simboli della fine (il Mulino, 2018); di fare cioè – in un panorama di disorientamento e crisi incombenti – delle macerie rovine, materiale simbolico «ermeneuticamente sensibile» che invita a lavorare nuovamente su di sé («and there I found one intersection / between word and thing at Bishopsgate Cemetery»).

Noemi Nagy


1

I woke to CFCs humming out of coils.

I woke to a compressor in my head
and the compressor in the wall that made cool air come 
                                                               [out of the vents –

couldn’t sleep – downloaded photos of the day,
to stare at them, as if the sky were something I could breathe in:

not good times by the sea, but – desert-blue and cracked 
                                                                                 [ground,

some tumbleweed blowing into my jeans;
green signs of Arabic letters looked like beautiful tributaries,

as they faded out along a road going to the Iraqi border,

where oil refineries were firing on the horizon,
where a border is a road: ending and beginning.

1

Mi ha svegliato il ronzio del CFC delle bobine.

Mi ha svegliato un compressore nella testa
e il compressore nel muro che mandava aria fresca 
                                                                 [dalle bocchette – 

impossibile dormire – ho scaricato le foto del giorno,
per fissarle, come se il cielo fosse qualcosa che potessi 
                                                                            [respirare:

non giorni lieti al mare ma – blu-deserto e terra crepata

qualche steppicursore rotola nei miei jeans;
cartelli stradali verdi in lettere arabe come splendidi affluenti,

che sbiadivano su una strada verso il confine iracheno,

dove le raffinerie di petrolio esplodevano all’orizzonte,
dove il confine è una strada: fine e inizio.


2

All day I was digging Armenian bones out of the Syrian desert

with a TV crew that kept ducking the Mukhabarat
who trailed us in jeeps and at night joined us

for arak and grilled goat under colored pennants and cracked 
                                                                                     [lights
in cafés where piles of herbs glistened back at me.

I passed out from sun and arak and camel jokes

in a massive hotel, my room opened to the Euphrates
that was churning in moonlight.
2

Tutto il giorno a scavare ossa armene nel deserto siriano

con una troupe televisiva intenta a schivare i Mukharabat
che ci seguivano in jeep e che di notte si sono uniti a noi

per un arak e una capra alla griglia sotto vessilli colorati e luci 
                                                                               [incrinate
in café dove mucchietti d’erbe mi scintillavano addosso.

Per il sole, l’arak e le barzellette sui cammelli sono svenuto

in un grande hotel, la mia stanza spalancata sull’Eufrate
che si increspava al chiaro di luna

3

When I woke I was dreaming back to the ’80s on Riverside 
                                                                                     [Drive
where Ani was born on a bright spring day,

in a decade of money and velvet when the plastic voice of 
                                                                                  [Sinatra
floated through fern bars where we lounged

with wine spritzers and lemon-drop martinis.
It was silver palette and more than cuisine

with its encoded sense of ending
and the smoked sable at Barney Greengrass

where we took Ani for brunch
on Sunday when the morning was lit up and open,
3

Quando mi sono svegliato stavo sognando gli anni '80 a
                                                                     [Riverside Drive
dove Ani nacque in un radioso giorno di primavera,

un decennio di ricchezza e velluto, con la voce plastica di 
                                                                                  [Sinatra 
che fluttuava nei fern bar dove ci rilassavamo 

con gli spritz e i lemon drop martini.
Aveva tutti i toni dell’argento ed era più che cuisine

con quel suo senso cifrato della fine 
e il merluzzo affumicato al Barney Greengrass,

là dove abbiamo portato Ani per il brunch
di domenica, quando la mattina era illuminata e aperta,

4

 – dreaming back to days
(why here on the black Euphrates at 4:00 a.m.?)

after our life went up in a blue flame as the gas jet died
and – we were gone to each other –

the walls silent and the floor boards echoed;
the U-Haul came and my book got rained on –

and the flags were rippling for Saint Gennaro.
Thisbe and Pyramus disappeared as myth and symbol
and that summed it up.
4

― sognando quei giorni
(perché proprio qui sull’Eufrate nero alle quattro di notte?)

dopo che la nostra vita svanì in una fiamma blu come un getto 
                                                                                    [di gas 
e  – ci siamo allontanati l’uno l’altro  –

le pareti silenziose e le assi del pavimento facevano eco;
è venuto il furgone dei traslochi e i miei libri si sono bagnati –

le bandiere si increspavano per San Gennaro.
Tisbe e Piramo scomparivano come miti e simboli
e tutto si faceva chiaro.

[1] https://www.libraryjournal.com/?reviewDetail=ziggurat

La traduzione di queste poesie è frutto di una collaborazione tra vari redattori e collaboratori di lay0ut, secondo uno spirito laboratoriale: Alberto Fraccacreta, Bernardo Pacini, Noemi Nagy, Martina Bedeschini, Clarissa Amerini. Si ringrazia l’autore per aver concesso i diritti di traduzione.

Immagine in evidenza: Ben Zank